università | ricerca

“Si lavora di più si guadagna di meno”, di Nicola Cacace

Non avevamo bisogno dell’ennesima conferma dell’Ocse per sapere che l’Italia ha salari da fame, del 20% inferiori alla media e con orari più lunghi. Al recente convegno di Confindustria dal titolo suggestivo «più produttività e meno povertà», il dottor Torrini della Banca d’Italia ha avanzato il sospetto che il valore aggiunto sia sottostimato, quindi sia sottostimata la produttività e sovrastimata la quota dei salari sul Prodotto Interno Lordo.
Nessuno degli autorevoli relatori ha ripreso il tema, importante per capire meglio i fattori della crisi italiana.

L’Italia è tra i pochi Paesi ad alto costo di energia elettrica dove da anni l’intensità energetica rispetto al Pil aumenta, essendo i consumi di energia cresciuti nel quinquennio 2002-2007 a tassi doppi del Pil. Poiché la quota lavoro sul Pil è calcolata direttamente mentre la quota capitale solo come residuo, risulta evidente che con un Pil sottostimato la quota lavoro sul Pil risulti più grande. Questo significa che la riduzione della quota lavoro sul Pil documentata dai dati ufficiali dal 1993 al 2002 è continuata anche dopo sino al 2007.

Metto da parte la querelle sui dati per rifarmi a quelli ufficiali, di per sé drammatici. Dal 1992 al 2002 c’è stata una forte discesa della quota lavoro sul Pil, dal 74% al 67%, che poi risulta quasi costante intorno sino ad oggi. Questo significa che profitti e rendite si sono appropriati di tutti gli aumenti di produttività a partire dal 1993, dopo la firma del Protocollo sindacale. E le indagini annuali Mediobanca sui profitti delle imprese confermano ampiamente il dato. Anche nel primo trimestre 2008 gli utili netti delle grandi imprese industriali sono aumentati del 10% (analisi dei bilanci ReS-Sole 24 ore). È un fatto che rinunciando da 15 anni alla loro quota di produttività, tutti i benefici della produttività sono andati al capitale. Da qui l’arretramento di salari e pensioni e la crisi dei consumi, da qui il fatto che, anche secondo Eurostat, «l’Italia è il Paese dove la domanda interna ha meno contribuito alla crescita del Pil».

E 7 punti di Pil sottratti al lavoro sono più di 100 miliardi di euro, che divisi per i 22 milioni di lavoratori, autonomi inclusi, fanno più di 4000 euro sottratti annualmente a ciascun lavoratore , dipendente od autonomo, cui vanno oggi aggiunti altri 1000 euro persi per Fiscal Drag (lavoratori e pensionati impoveriti pagano tasse con aliquote da benestanti).

E veniamo alla bassa produttività, sventolata dalla Confindustria per limitare i salari, col rischio di mandare il Paese in una crisi sociale ed economica devastante. La produttività industriale italiana non è bassa e lo dimostra la vigorosa ripresa dell’export in atto da 3 anni. Se c’è un problema di bassa crescita di produttività nazionale esso è nei servizi. La prova sta nei dati della Bilancia dei pagamenti. Mentre l’export manifatturiero arriva quasi a compensare il passivo crescente di agricoltura e petrolio, nei Servizi competitività e deficit sono in picchiata. Sino al 2000 l’attivo del Turismo compensava il passivo di Trasporti e Servizi alle imprese, mentre oggi il passivo crescente di questi due settori, 20 miliardi di euro, sorpassa l’attivo del Turismo, 11 miliardi, mandando la Bilancia complessiva dei Servizi in passivo forte, 9 miliardi e crescente.

La debolezza dei servizi deve preoccupare molto per il loro peso crescente sul Pil. Quanto al salario la perdita di potere d’acquisto è stata così devastante e lunga, che la Confindustria non deve strumentalizzare la produttività per impedire un periodo di recupero del potere d’acquisto che è dovuto e che è vitale anche per l’economia. Senza ripresa dei consumi ci arrotolereremmo in una crisi senza ritorno, perciò sono indifendibili sia l’inflazione programmata all’1,7% che le Grida contro i pericoli della “indicizzazione”; in un Paese dove tutto è indicizzato, benzina, tariffe, autostrade, polizze, pasta e pane, accise statali, tener fermi salari e pensioni significa semplicemente affamare la popolazione.

Il Protocollo ‘93, che è stato pagato caro dai lavoratori – la crescita delle disuguaglianze oggi allinea Italia agli Stati Uniti – va sciolto dai lacci di un contratto nazionale che mentre lega i salari ad una inflazione programmata spesso risibile lascia liberi i profitti di crescere senza alcuna attenzione per i prezzi, come fan tutti, si veda l’Enel che con margini lordi doppi della EdF fa pagare il chilowattora (kwh) il 30% più che ai francesi.
Si vuole attivare maggiormente il contratto aziendale? Va bene, si crei allora un Organismo di Garanzia territoriale misto, sindacati e imprese che operi per far in modo che la contrattazione decentrata copra la totalità degli occupati e non solo il 30% come oggi.

L’Unità 6 Luglio 2008

1 Commento

    I commenti sono chiusi.