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Il welfare del governo «Più lavoro per le donne più precariato per i figli», di Felicia Masocco

Parlare dell’età della pensione delle donne e finire col parlare di lavoro. Raccontare del lavoro e finire sui figli. E se i figli sono già grandi e precari, se vanno ancora mantenuti perché i «lavoretti» vivamente consigliati dal ministro del Lavoro non bastano, ecco che la scelta di andare in pensione il più tardi possibile s’impone. Per il welfare familiare, l’ammortizzatore fatto in casa che va a correggere la distorsione forse più forte del mercato: il precariato interminabile. Ma restare al lavoro significa continuare ad «occupare» un posto che andrebbe lasciato ai figli, per dar loro la chance di smettere i «lavoretti» e guadagnarsi un futuro. Per questo, ma non solo per questo, le otto lavoratrici che ieri hanno partecipato al forum de l’Unità hanno pronunciato un No unanime all’allungamento dell’età della pensione di cui si è tornato a discutere con prepotenza. Si lasci, dicono, la libertà di scelta.

Otto donne, otto esperienze diverse e un punto di contatto tra tutte: le loro scelte sono fortemente condizionate dallo status di madre, moglie e figlia. «È cosa antica», nota Susanna Camusso. Ma è tornata. L’autodeterminazione, bandiera di tante battaglie è lontana. Non si sceglie più per il «sé», si sceglie per gli altri, spinte da fattori oggettivi. «Il rapporto tra genitori e figli è diventato il perno. Siamo in presenza di un circolo vizioso e l’unica pensata è punitiva», nota Lidia Ravera.

A Veronica, 38 anni, perito chimico, viene negato il part time, né ha avuto un seguito la determinazione a far carriera. «Avrei voluto fare bene almeno una cosa dice, o la mamma o la carriera. Guadagno 1700 euro e ne pago 450 a chi mi tiene il bambino. Sono stata tentata di scegliere di fare la casalinga. Mi devo sbrigare a cambiare idea». Veronica non ha ceduto alla tentazione. Ma dalla sua e dalle altre storie emerge un rischio: a colpi di servizi che non ci sono e di carriere negate si stanno spingendo le donne a tornare a casa. Ad arretrare. Ha dunque ragione chi vuole tenerle al lavoro il più possibile? «La parità? Non è certo nell’età della pensione, è un’altra cosa», risponde Giulia, 50 anni, amministrativa alla Selecs Galileo. Le altre le danno ragione. Si dicono convinte che, per necessità, resteranno al lavoro fino a quando non avranno i contributi necessari, quindi usciranno molto tardi. Perché le loro sono storie di lavoro discontinuo, rallentato o fermato dalla maternità. «Non si deve ritardare la pensione, si deve anticipare l’entrata nel mondo del lavoro», dice Giuliana, 38 anni, conducente di autobus. Purché non sia in nero come quello che Giuliana ma anche, Rosalba, Giusy, Licia hanno vissuto più volte da quando hanno cominciato a lavorare. Ha lavorato in nero Luisa, 56 anni, oggi impiegata in una clinica privata, ultimo approdo di un lungo peregrinare. «Facevo le ore», ha detto a un certo punto, «non mi viene di dire che lavoravo, perché quando sei precario non senti di stare nel mondo del lavoro».
Saranno costrette a lavorare il più possibile ma, potendo, si pensionerebbero. «Anche perché è duro oltre i 60 anni alzare cassette di 25 chili o estirpare carote con il fango di che ti arriva alle ginocchia», racconta Rosalba, 53 anni, stagionale agricola. Guadagna 4 euro l’ora. «Tu ti ci vedi a 60 anni a spostare un “tiraspalle” per scaricare la merce nelle corsie»? Giusy, 40 anni, lo chiedeva ai colleghi prima che Carrefour la licenziasse con altri 115 dopo 16 anni di lavoro. Ha un bimbo piccolo e ha perso da poco il compagno. Il compagno, non il marito, dunque per lei né pensione del coniuge né altro. Un’altra parità negata. «Fare il girotondo con i i bimbi di prima elementare a 60 anni, provateci voi», è la provocazione di Lisa 52 anni, insegnante. Licia, 80 anni, è in pensione con la minima di 415 euro. Dopo una vita di tanto lavoro. Ma pochi contributi.
L’Unità 15.03.09

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