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“Dieci anni dopo penso che la morte di mio marito ha creato solo insicurezza”, di Marcella Ciarnelli

Dieci anni domani. Le Nuove Br il 20 maggio del 1999 uccisero a due passi da casa sua, di primo mattino, alle 8 e mezza, il professor Massimo D’Antona. Era un giovedì. Spirò in ospedale dopo poco. Via Salaria era stretta nel traffico, come al solito. Sembrava una giornata qualunque scandita dai tempi del lavoro, dell’impegno, del ritorno a casa. Come sempre.
Il commando entrò in azione e stroncò la vita ad un uomo che aveva dedicato la sua tutta intera a studiare il difficile e affascinante meccanismo che regola il mondo del lavoro. Di chi ce l’ha e di chi spera di averlo.
La drammatica realtà di quella mattina di maggio cambiò radicalmente la vita di una famiglia colpita brutalmente da una sentenza eseguita senza appello. Olga D’Antona, la moglie, ora è deputata del Partito democratico, è alla terza legislatura. Per la prima volta fu eletta nel 2001.
Membro della Commissione Affari costituzionali, rinnova il ricordo ma evita la rievocazione. C’è un libro in cui ha raccontato la sua vicenda, quella personale, quella dell’impegno nella società. « Il sottosegretario Gianni Letta mi sta aiutando a donarlo alle biblioteche delle carceri e di molte scuole. E’ stato lungimirante e sensibile in questa collaborazione. Ci siamo trovati alleati per contrastare ogni tipo di violenza politica». Stare in schieramenti diversi non ha impedito un lavoro insieme dalla parte di chi ha il diritto di conoscere gli avvenimenti che hanno segnato in modo indelebile la vita di questo Paese.
L’onorevole D’Antona preferisce, dunque, rivolgere lo sguardo al futuro. Al mondo che sta cambiando e si trova a fare i conti con una crisi senza precedenti. Più che di quella mattina di maggio parla più volentieri dei tanti giovani con i quali in questi anni si è confrontata, ha discusso, ai quali ha raccontato. Il passato. Le speranze. Lo stesso ha fatto nelle carceri. Questa mattina sarà alla Sapienza, in mezzo agli studenti, ai ragazzi con tante speranze e tanti dubbi, senza politici, a ricordare suo marito, il docente, che «al di là di certe frasi estrapolate dal contesto» in modo strumentale «aveva già capito fino in fondo i mutamenti sociali che erano alle porte. Vedeva che il mercato del lavoro stava cambiando e che con la flessibilità bisognava farci i conti. Tutti. A cominciare dal sindacato che doveva metterci le mani dentro con determinazione. Partendo dalla formazione perché nulla garantisce di più che le competenze e la preparazione».

Eppure i ragazzi studiano, si preparano, ma la prospettiva di un lavoro stabile si allontana nel tempo.
«Questo è il problema dei nostri giorni. In una società in cui l’ammortizzatore sociale più efficace è ancora la famiglia come potrà continuare a funzionare il sistema se questi ragazzi sempre più tardi avranno la possibilità di farsi una famiglia e se, nel contempo, nessun altro meccanismo viene proposto».

Lei ha rimpianti, al di là del dolore personale?
«Ho la consapevolezza che la vocazione conservatrice delle Br ha imposto un arretramento, ha fermato con il sangue la possibilità di riuscire a costruire una società migliore. Le morti di mio marito e di Marco Biagi hanno contribuito a provocare insicurezza e precarietà. Nei giovani ma anche in quelli che un lavoro lo perdono a cinquant’anni e si confrontano con un’organizzazione sociale che non è preparata a dare prospettive a questi giovani di ritorno».

Onorevole D’Antona lei deputato del Partito democratico. Cosa le ha dato la politica in tutti questi anni?
«Mi ha dato voce. Molti dei parenti delle vittime hanno sofferto l’oblio. Io sono stata ascoltata, ho avuto visibilità, alleati».

Il presidente della Repubblica, nella giornata dedicata alla memoria delle vittime, si è ancora una volta schierato dalla parte di chi ha sofferto la pena indicibile della perdita di un affetto, invitando a ricordare ma anche a superare le contrapposizioni. Bisogna riuscire a guardare avanti, anche se è difficile, penoso, duro senza dimenticare quel che è accaduto ma superando ogni istintivo rancore, ha detto Napolitano. Lei condivide questa indicazione?
«Non ci può essere pacificazione senza una memoria condivisa, e il presidente Napolitano ha fatto una cosa giusta nell’indicare un percorso per arrivare al superamento di una stagione in cui l’odio superava qualunque altro sentimento, ma resto convinta che finché continuano ad aleggiare certi fantasmi è difficile che questi obiettivi possano essere raggiunti. In più occasioni ho avuto modo di dire che ci sono ancora troppe vicende oscure. Molto si è capito del terrorismo rosso ma sullo stragismo troppe sono le cose di cui non si sa nulla. Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus…Abbiamo fatto la riforma del segreto di Stato ma ancora è troppo difficile guardare negli archivi, bisognerebbe studiare accessi semplificati, un’informatizzazione capace di consentire di arrivare finalmente alla verità».

Abita sempre nella stessa casa di dieci anni fa?
«Certo. Non potrei stare altrove. Qui ho messo le mie radici. Ci sono tutti miei ricordi».

E com’è ora il legame con la memoria di quell’uomo che uscì di casa quella mattina per non tornarci più? Ricordi, rimpianti…
«Da quando avevo diciassette anni ha riempito la mia vita ed io mi sono occupata di lui. Mi continuo ad occupare di lui anche adesso. Facendolo ricordare da chi lo ha conosciuto. Facendolo conoscere a chi non ne ebbe modo».

L’Unità, 18 maggio 2009

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