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“Non solo carità, ma anche diritti”, di Paola Di Nicola

T. H. Marshall nel suo poderoso contributo sulla cittadinanza sosteneva che i diritti sociali sono stati la marca distintiva delle società occidentali del XX secolo: sul riconoscimento di tali diritti si è giocata buona parte dell’evoluzione sociale, politica e culturale delle democrazie occidentali. All’inizio del XXI secolo, conclusasi la fase espansiva dei sistemi welfare, messi alle corde dalla profonda crisi economica, fiscale, culturale e di legittimazione, si sta aprendo uno scenario che deve destare qualche interrogativo sul fronte dell’evoluzione dei nostri sistemi di welfare.

In tempi duri per i lavoratori, le lavoratrici e le loro famiglie si riscopre la solidarietà sia orizzontale che verticale. Le famiglie si riaggregano, si uniscono, fanno rete per ottimizzare risorse sempre più scarse: crescono gruppi di acquisto solidale (GAS), si ricorre al microcredito, le banche del tempo conoscono una nuova stagione. Laddove e quando la solidarietà orizzontale non è sufficiente, Chiesa ed enti benefici intervengono con aiuti dall’alto. Molti enti locali (regioni, comuni) hanno attivato interventi di sostegno ai redditi delle famiglie in difficoltà, soprattutto a favore degli occupati che hanno perso il lavoro (prestiti sull’onore, riduzione del costo delle rette e contributi per il pagamento delle utenze ecc.), ma in realtà i mass media nazionali sottolineano con maggiore forza e vigore le scelte fatte da Vescovi e Cei. Come se volessero abituarci lentamente a riscoprire il valore di legami e forme di solidarietà di tipo particolaristico che sono fondamentali come cemento per le piccole comunità (familiari, di quartiere, cittadine), ma sono assolutamente insufficienti per tenere insieme un tessuto sociale sempre più ampio, complesso, de-localizzato: uno Stato è qualcosa di più e di diverso della mera somma delle famiglie dei cittadini!

Tali interventi sono importanti, soprattutto se provengono da istituzioni che dovrebbero avere come compito istituzionale la solidarietà e nei momenti di crisi queste ‘prove generali di solidarietà sono strategiche per rinsaldare un tessuto sociale fortemente stressato dal neo-liberismo dominante e dai processi di individualizzazione. Ma l’enfasi con cui se ne parla rischia di avallare un sostanziale arretramento che nei fatti si sta realizzando sul piano dei diritti di cittadinanza, in particolare dei diritti sociali. H. Wilensky sosteneva che l’essenza del welfare state consiste nel garantire a tutti i cittadini standard minimi di reddito, istruzione, salute, abitazione non per carità ma per diritto politico. Sta proprio in questa sostituzione della rete della beneficenza con la solidarietà istituzionalizzata il punto di svolta dalla condizione di suddito a quella di cittadino. Dalla condizione di chi – se in stato di bisogno – altro non può fare che rimettersi alla benevolenza degli altri, alla condizione di chi per diritto non deve incorrere nel rischio di cadere in una situazione di bisogno estremo; dalla condizione di chi chiede, alla condizione di chi rivendica. La differenza è sostanziale e si manifesta nei criteri di inclusione.

Quando la CEI ha dichiarato la propria intenzione di sostenere economicamente le famiglie, ha altresì specificato che gli aiuti sarebbero andati alle coppie sposate, anche se il matrimonio fosse stato celebrato con il solo rito civile. Questa precisazione non era affatto implicita, tanto è vero che è stato necessario puntualizzare. Nulla osta, infatti, a che la Chiesa si occupi solo dei suoi fedeli praticanti: aprirsi agli altri è una scelta, non importa se ‘moralmente’ doverosa! Contemporaneamente è stato detto che ‘per i divorziati’ si vedrà. A parte le difficoltà di dirimere tra ciò che è famiglia e ciò che non lo è (in base a quanto dichiarato, un divorziato risposato fa famiglia; una donna separata con figli è famiglia; una donna divorziata con figli non è famiglia!), il problema non riguarda tanto la sensibilità che la Chiesa mostra nei confronti del disagio familiare, tanto più meritoria quanto più l’area delle difficoltà si amplia, quanto il fatto che la rete della solidarietà istituzionalizzata (la rete della protezione sociale, gli ammortizzatori sociali, i trasferimenti monetari a favore dei redditi più bassi) non si vede o, se c’è, è una debole filigrana.

La tutela dei diritti di cittadinanza (nel triplice aspetto di diritto civile, politico e sociale) aveva la finalità di emancipare il cittadino dalle comunità di appartenenza ascrittive, particolaristiche, localistiche, etniche, religiose che esercitavano un forte controllo sociale e chiedevano lealtà e sacrificio della libertà (di scelta) in cambio dell’aiuto dato. L’emancipazione è stata resa possibile da azioni tese a corroborare i diritti individuali, mettendo tutti (criterio universalistico) nelle condizioni di essere tutelati contro i rischi fondamentali della vita, attraverso patti di solidarietà intergenerazionale regolati dallo Stato e non dal codice del sangue o dell’affiliazione, che per definizione è particolaristico ed esclusivo (rispetto ad una comunità si è o dentro o fuori). Tali patti costituivano e costituiscono il cuore del welfare state.

Uscire dalla crisi, pensare al futuro sapendo di poter affidarsi quasi esclusivamente alle solidarietà corte, particolaristiche, radicate in specifici territori simbolici oltre che geografici, e alimentare, nella misura in cui lo si dà come ovvio, questo senso di estraneità, lontananza dello Stato rispetto ai bisogni fondamentali di tanti cittadini, ha una funzione di socializzazione anticipatrice rispetto ad un nuovo modello di welfare di tipo residuale, che vede da una parte uno Stato che si occupa solo ed esclusivamente degli ‘ultimi’, degli out, degli esclusi (che per definizione sono “senza radici”) e dall’altra comunità di appartenenze, i cui confini possono essere diversamente tracciati (su base religiosa, etnica, territoriale, ideologica ecc.) che gestiscono (progettano, organizzano ed erogano) servizi socio-sanitari, educativi, scolastici ed assistenziali a favore dei propri membri (selettività nell’accesso). Può sembrare uno scenario molto lontano e improbabile, ma in realtà se si arrivasse ad una stretta saldatura tra federalismo fiscale e forme radicali di multiculturalismo tale esito non sarebbe da escludere.

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