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“Lo stato si riprende i soldi per la ricerca”, di Raphael Zanotti

Dopo tre anni fondi scaduti.  Le università: «È un trucco». È la più grande illusione ottica contabile degli ultimi anni: il giorno prima i soldi ci sono, stanziati e autorizzati, il giorno dopo sono spariti dal bilancio, indisponibili. Questo particolare fenomeno di «smaterializzazione» è oggetto di studio, da alcuni mesi, di tutti gli scienziati italiani che non capiscono dove sono finiti i soldi destinati ai loro progetti Firb, il Fondo degli investimenti per la ricerca di base. Dal 2000 a oggi il ministero dell’Università e della Ricerca ha finanziato con questo strumento decine di programmi, ma dopo le prime tranches non è più arrivato un euro. Perché, visto che i fondi erano a bilancio? In gergo ministeriale si chiama «perenzione amministrativa», uno dei prodotti più curiosi della fervida burocrazia italica.

Questo «virus» colpisce qualunque stanziamento. Se entro tre anni dall’assegnazione i soldi non sono usati, lo stanziamento muore. Ovvero ritorna al ministero del Tesoro, che lo incamera e lo usa come più gli aggrada. Riassegnarlo per terminare quel che si era cominciato è a totale discrezione del dicastero guidato da Giulio Tremonti. Il quale però, a quanto pare, non ha alcuna intenzione di mollare l’osso. Peccato nessuno abbia pensato che i progetti Firb durano tre, quattro, cinque anni. Per quelli più lunghi si sarebbe comunque sforato. Ma anche per i triennali non c’è scampo: qualunque progetto di ricerca ha bisogno di almeno un anno, tra autorizzazioni, bandi e concorsi, prima di partire. Risultato: scaduto il termine, i soldi sono tornati a Tremonti. Dal ministero parlano di circa 240 milioni e tutta la ricerca di base italiana è a terra.

Agli scienziati è stata fornita una macchina con l’indicatore che segnava «pieno». Poi è stato detto loro: «Partite». E dopo un chilometro l’auto si è fermata perché mancava la benzina. «Ma io questi ricercatori li ho già assunti e li stiamo pagando da due anni» è la protesta Ivano Bertini, direttore del Centro europeo di risonanze magnetiche di Sesto Fiorentino. Per il suo progetto sono «spariti» due milioni di euro. «Quasi quasi fallisco, compro macchinari, faccio debiti e non li pago» è la sua provocazione. Sergio Benedetto, direttore del Dipartimento Elettronica del Politecnico di Torino, è in una situazione diversa. Il suo «Primo», un progetto sulle piattaforme wireless riconfigurabili, ha ottenuto il finanziamento Firb più cospicuo: 11,2 milioni di euro. Coinvolgeva tre università, un centro di ricerca e quattro industrie.

È terminato con esiti positivi nel 2006 ma ancora non è stata saldata l’ultima tranche: mezzo milione di euro. «Il ministero non sta onorando i suoi impegni – dice Benedetto -. Ho scritto una lettera al ministro sollecitando una soluzione. Sto facendo i salti mortali per riuscire a trovare i soldi e pagare gli stipendi ai ricercatori che abbiamo assunto». Stessa sorte per altri colleghi, anche di profilo internazionale. L’Ebri, il centro di ricerca sul cervello messo in piedi nel 2004 dal Nobel Rita Levi di Montalcini, ad aprile aveva ricevuto solo 3 dei 20 milioni promessi. E il Cnr, l’ente che raccoglie 107 istituti di ricerca del Paese, «piange» non meno di dieci milioni. Gli atenei, già falcidiati dai tagli, sono alla frutta. «L’Università di Milano ha fondi caduti in perenzione per 6 milioni», spiega Angelo Casertano della Divisione servizi per la ricerca dell’Università di Milano. E Claudio Borio, suo omologo dell’Università di Torino, incalza: «Noi siamo a 2,7 milioni».

Il presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane, Enrico Decleva, il 16 marzo scorso ha tentato di giocarsi l’ultima carta scrivendo un’accorata lettera al ministro Gelmini nella quale sollecitava la riassegnazione dei fondi. L’unica possibilità per rientrare in possesso di quei soldi è infatti accedere al «fondo speciale per la riassegnazione dei residui perenti delle spese in conto capitale» del Tesoro. Ma, dicono dal Miur, «quel fondo è totalmente insufficiente». Secondo un’interpellanza presentata dal senatore del Pdl Antonio Paravia (che parla apertamente di «falso nel bilancio pubblico») i fondi caduti in perenzione ammontano a 27 miliardi di euro, praticamente due leggi finanziarie. Le fatture impagate raggiungevano a ottobre gli 8 miliardi mentre il fondo speciale, pur implementato di 900 milioni, è finito nel giro di un mese viste le richieste. Anche Alfonso Andria del Pd ha presentato un’interpellanza ma come il collega di maggioranza non ha ricevuto risposte. Le loro sono voci fuori dal coro.

La perenzione amministrativa è un tabù bipartisan. Per il centrosinistra l’argomento è scomodo. L’attuale situazione è dovuta a una norma introdotta dall’ex ministro Tommaso Padoa-Schioppa nella Finanziaria 2008 che ha portato la perenzione da sette a tre anni. La maggioranza, dal canto suo, non modifica la norma perché se dovesse tirare fuori oggi quella montagna di denaro, perderebbe punti di Pil. Il che non sarebbe benvisto in Europa. Così l’illusione ottica contabile continua. E miete vittime in molti settori, non solo nella ricerca. Il meccanismo, infatti, si applica a qualunque stanziamento. Imprese che lavorano con la pubblica amministrazione, fondi per l’imprenditoria che si svuotano di colpo, opere stradali senza finanziamenti, commesse mai pagate: in molti stanno facendo la spiacevole conoscenza con la perenzione amministrativa. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha posto il problema nella riunione del 20 maggio, ma per ora nulla si è mosso. Al professor Umberto Di Porzio, ultimo in ordine di tempo a veder «perire» 750.000 euro del suo progetto internazionale di tre anni sulla biogenetica, non resta che sfogarsi: «Mentre il governo fa finta di ridurre il debito pubblico i miei contratti per i giovani vanno in fumo. Stiamo facendo una figuraccia internazionale. Gli eminenti colleghi inglesi, americani e canadesi non riescono a capire cos’è la perenzione. D’altra parte come dar loro torto?».

La Stampa 07.06.09