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“L’Aquila, l’incubo di trasformarsi in città fantasma”, di Roberto Giovannini

Le associazioni: rivogliamo le case nel centro.

L’Aquila è morta, ora. Nessuno si azzarda a stimare quanti soldi, quanto lavoro, quanto tempo servirà per rimettere in piedi una città che, circondario compreso, contava centomila abitanti. Un problema che per adesso non si pone nessuno: la priorità, dicono alla Protezione Civile e al Comune, è risolvere l’emergenza, far uscire prima dell’inverno dalle tendopoli le quasi 20.000 persone ancora alloggiate nei campi, riaprire le scuole. Ma dopo l’emergenza si rischia di trovare un deserto economico, sociale, urbanistico.

Oggi la «popolazione assistita» dal commissario straordinario Guido Bertolaso ammonta a 47.961 persone: 19.857 nelle tendopoli, 18.729 negli alberghi, 9.631 in case private. Di questi 48.000 sfollati, 27.886 vivevano in case attualmente del tutto inagibili (il 30,7% del totale). Circa 15.000 (4500 entro la fine di settembre, altrettanti dopo il 16 ottobre, e poi a seguire) finiranno nei 4950 appartamenti delle C.A.S.E. antisismiche realizzate in 19 aree, alcune distanti anche diversi chilometri dall’Aquila. Altri 5000 circa andranno nelle case sfitte, ne sono state censite 2600; 1000 negli alloggi usati per il G8 nella Caserma di Coppito della GdF. Altri 5000 torneranno nelle loro abitazioni classificate A, ovvero con danni inferiori a 10.000 euro. Il resto andrà negli alberghi o in case affittate utilizzando il contributo di 600 euro al mese della Protezione Civile. E l’emergenza dell’inverno sarà superata con sistemazioni «dignitose e confortevoli», come ha detto Guido Bertolaso.

Numeri che non tranquillizzano molti aquilani, a cominciare dalle associazioni che aderiscono al Comitato 3.32 (l’ora del sisma del 6 aprile) che hanno sempre contestato la filosofia Bertolaso delle C.A.S.E., chiedendo piuttosto di imitare quanto si fece in Umbria e Marche: sistemazioni temporanee in casette/container, ora moderne e abbastanza confortevoli, e contestuale avvio della ricostruzione delle case danneggiate. Una strada considerata ancora percorribile. «Le C.A.S.E. – spiega Sara Vegni, del “3.32” – sono state localizzate senza alcun confronto con gli aquilani e senza alcun riguardo per le esigenze delle persone. La risistemazione degli edifici A, B e C, quelli poco o nulla danneggiati, è completamente ferma anche per le procedure confuse e complesse stabilite dal commissario. Si sta strappando alle sue radici un’intera popolazione, sparpagliandola fra l’entroterra e la costa, e avviando una guerra tra poveri per avere le C.A.S.E.». Guerra tra poveri – 15 mila posti per 23 mila potenziali richiedenti – che verrà resa più spigolosa dai criteri per adesso definiti dal Comune dell’Aquila per l’assegnazione: saranno favorite le famiglie con molti figli, molti anziani, e disposte a coabitare, ovvero per definizione le famiglie di stranieri o immigrati. Una donna single con madre anziana a carico in pratica non avrà speranze. Uno dei molti grattacapi da risolvere per il sindaco Massimo Cialente (Pd), di fatto senza reali poteri di governo in questa fase di emergenza.

Il sindaco Cialente – lo incontriamo emaciato, stanchissimo – è il sindaco di una città che non esiste più. «Era dal terremoto del 1908 di Messina e Reggio – spiega Luigi Vicinanza, direttore del quotidiano abruzzese “il Centro” – che non veniva colpito in modo tanto distruttivo un grande capoluogo». Un capoluogo, spiega l’urbanista Vezio De Lucia, animatore del «Comitatus Aquilanus» (anch’esso contrarissimo alla filosofia Bertolaso), «che era già fortemente diffuso. Ma che viveva grazie a un centro storico eccellente, qualificato, ricco, che attirava 15.000 studenti universitari da tutto il Sud assicurando qualità della vita e buona offerta formativa. Un centro storico che oggi non esiste più né si pensa di riattivare. Con le C.A.S.E. ha prevalso la logica della diaspora».

Ad alimentare l’economia e la vita della città, oltre agli universitari che rendevano L’Aquila tanto vivace, c’era un tessuto imprenditoriale debole, con un polo dell’elettronica già in crisi da anni. Dopo il sisma, le imprese locali non sono riuscite a inserirsi (se non in minima parte per l’edilizia) nelle attività legate all’emergenza. Persino il latte distribuito nei campi viene da fuori, anche la manodopera per le C.A.S.E. non è aquilana, nel circondario sono piovute aziende da tutta Italia. Francesco Manni, direttore dei costruttori dell’Ance dell’Aquila, è ottimista per il futuro: «Avremo spazio e lavoro per tutti, la ricostruzione sarà una cosa gigantesca». Antonio Cappelli, direttore dell’Unione Industriali, ricorda però che ora sono in cassa integrazione circa 7000 persone. E discrimina tra un’industria manifatturiera (elettronica esclusa) che «si è rimessa in moto» e un terziario (specie il piccolo commercio e l’artigianato) del tutto paralizzato.

Molti sfollati non hanno letteralmente i soldi (anche 10-20 mila euro, che verranno rimborsati) da anticipare alle ditte per sistemare le case A e B. Molti terreni agricoli vengono comprati da speculatori, e venduti in lotti dove sorgono casette di legno a blocchi di favelas. E come chiariscono alla Protezione Civile, «la vera ricostruzione sarà un problema immenso, ci possono volere dieci, venti o cinquant’anni». I soldi arriveranno, si spera. Sarà questa la speranza per L’Aquila? «La verità – conclude amaro Vicinanza, che seguì a suo tempo il sisma e il dopo-sisma in Irpinia – è che un terremoto non è mai un’occasione di sviluppo. E’ un disastro e basta».

da La Stampa