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«Mafia, si cerca un colpevole. Uno qualunque», di Francesco La Licata

Sollecitato dal detonatore mediatico di Annozero, il tema delle stragi mafiose del ’92 e del ’93, ma soprattutto quello della trattativa intavolata dallo Stato con la mafia per farle cessare, è tornato prepotentemente alla ribalta.

La miccia, si sa, l’ha innescata l’ex Guardasigilli – Claudio Martelli – riferendo (tardivamente, visto che sono trascorsi 17 anni) un episodio riferitogli a suo tempo da Liliana Ferraro, la più stretta collaboratrice di Giovanni Falcone fino a quel tragico 23 maggio 1992.

Ha detto Martelli alle telecamere di Annozero che l’allora capitano dei Ros Giuseppe De Donno era andato a riferire alla Ferraro dell’esistenza di una possibilità di collaborazione di Vito Ciancimino, nel tentativo di fermare le stragi di Cosa nostra. Di tutto ciò, quindi, fra il 21 e il 23 giugno del ’92, Paolo Borsellino sarebbe stato informato dalla stessa Ferraro.

Come spesso accade quando la cronaca, per sua natura tutt’altro che certa e definitiva persino nei tribunali, approda alla ribalta mediatica, si è liberata un’incontrollata ridda di voci, ipotesi e reazioni che, piuttosto che semplificare la già ingarbugliata vicenda, la rendono ancora più difficile da decifrare. La prima conclusione avventata sembrerebbe proprio la presunta reazione di Borsellino alla notizia della trattativa. Sapeva, era contrario ed è morto per questo. Ma è proprio così? E se era contrario, a chi ha esposto la propria contrarietà? Vuol dire che dovremo aspettarci ulteriori rivelazioni da altri soggetti che ebbero contatti con Borsellino? Senza considerare che resta incomprensibile come sia potuto accadere che il candidato alla successione a Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale sia rimasto silente per 25 giorni, senza avvertire la necessità di condividere con qualche amico fidato quanto aveva appreso. Ma questa sarà materia dei prossimi accertamenti.

L’affare, dicevamo, invece di chiarirsi si complica. E non viene in soccorso la ritrovata memoria di tanti protagonista di quella stagione. S’è dovuto attendere l’inatteso pentimento del mafioso Gaspare Spatuzza, poi l’imprevedibile collaborazione di Massimo Ciancimino (figlio di don Vito, il dominus della trattativa con Totò Riina) per assistere a una serie di ammissioni che confermano quanto sbandierato in numerosi processi dai collaboratori: l’«Esistenza della trattativa era a conoscenza pure delle pietre». E allora viene da chiedersi se negli anni scorsi, lunghi anni di indagini, sia stato fatto tutto quanto necessario per giungere alla verità. L’iniziativa dei carabinieri del Ros non è mai stata un mistero, dal momento che già a Caltanissetta e Firenze gli stessi ufficiali l’hanno raccontata nei particolari, seppure descrivendola – e non poteva essere diversamente – semplicemente come un tentativo finalizzato alla cattura dei vertici corleonesi. Ma Vito Ciancimino non è mai stato chiamato in un’aula di giustizia, né qualche magistrato è mai andato a trovarlo in carcere o a casa (quando era ai domiciliari) per approfondire la sua versione dei fatti. Eppure almeno fino al 19 novembre del 2002, data della sua scomparsa, appariva frequentabilissimo, come ha spiegato in tv il figlio Massimo, rivelando che nella casa di Piazza di Spagna, a Roma, don Vito ricevette la visita del latitante Bernardo Provenzano.

E’ comprensibile che nella vicenda abbia pesato una certa «ragion di Stato». Ciò che risulta meno accettabile è che in nome del primato della politica (una politica trasversale, visto che negli anni si sono alternati governi di segno opposto) una verità parziale sia stata offerta ai famigliari delle vittime come frettoloso risarcimento al lutto. Né ciò che si profila all’orizzonte sembra poter sanare il deficit di verità. Esposti al fuoco incrociato mediatico restano le solite prime file, spesso in funzione di parafulmini. Sullo sfondo restano le responsabilità politiche, spesso pronte a scaricare in basso il peso delle sconfitte e a rivendicare il merito dei successi. Si intravede già oggi la necessità della riapertura del processo sulla strage di via D’Amelio, minato dalle rivelazioni giunte da Gaspare Spatuzza e Massimo Ciancimino che inficiano indagini non esaltanti del passato. Sarebbe auspicabile che non venisse praticata la via breve della ricerca di un capro espiatorio, uno qualunque.
da La Stampa