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Dario Franceschini: discorso ai lavoratori, la sesta tappa del viaggio dei 10 Discorsi

Qualche tempo fa mi è capitato di parlare a dei bambini di Costituzione. Quando ho detto che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, uno di quei bambini, avrà avuto più o meno undici anni, mi ha chiesto: il lavoro di chi? Allora ho pensato alle ragioni che potevano aver indotto quel bambino a fare quella domanda. Sembrava una battuta. Il lavoro di chi? Forse perché si è fatto largo lo l’idea di un Paese forse perché in televisione un ministro particolarmente aggressivo parla sempre e solo di fannulloni. O forse perché in questo tempo di crisi non si fanno che ripetere cifre e statistiche di disoccupazione che cresce settimana dopo settimana. Di cassa integrazione da estendere per chi sta perdendo il posto. Di imprese costrette a chiudere per mancanza di credito da parte delle banche. Di precari a zero euro. Il lavoro di chi. Pone che la questione del la questione del lavoro, e la stessa condizione dei lavoratori e degli operai sono state trascurate dalla politica. Perché questa perdita di centralità del lavoro? Ci sono radici naturalmente nei cambiamenti economici e sociali della nostra epoca. Il differenziarsi dei lavori, quel differenziarsi che ha indebolito i legami di rappresentanza sindacale prima ancora che politica. E di conseguenza l’appannarsi della tradizionale identità della classe operaia. Ma poi anche le fratture fra il lavoro tradizionale e i nuovi lavori, le incomprensioni fra lavoratori adulti e il mondo dei giovani; le tensioni più recenti fra italiani e immigrati acuite da distanze culturali e ora dalla crisi. Queste fratture sono state aggravate dalle politiche conservatrici, in Italia più forti e più conservatrici che altrove.
Fratture che hanno aumentato le incertezze e la precarietà di molti lavoratori. Che hanno reso più deboli le loro posizioni sia nella scala sociale sia soprattutto nei livelli di reddito con rischi ed episodi di vero e proprio impoverimento. Oggi la crisi economica rischia di dare l’ultimo, decisivo colpo a quella centralità. Lo dicono i dati. Lo svela la crescita drammatica della disoccupazione anche nelle zone forti del paese. Lo si vede dal numero crescente di persone, in particolare giovani e donne, che sono così scoraggiati da non presentarsi neppure più sul mercato del lavoro a cercare un posto. I dati fanno paura. Più di 560 mila posti di lavoro persi nel secondo trimestre del 2009 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e 340 mila persone in cassa integrazione, e in più oltre 430 mila persone che diventano inattive, scoraggiate al punto da non cercare nemmeno più un lavoro. Esistono aree del nostro Paese, come il Sud, dove la disoccupazione riguarda il 25 per cento dei giovani fino a 30 anni e il tasso di occupazione delle donne supera di poco il 30%, lavora una donna su tre. Questa realtà drammatica, che sta provocando lacerazioni profonde e dolorose nel tessuto sociale è negata dal governo. Tenuta nascosta dal governo. E’ oscurata. Il governo di Berlusconi e Tremonti di fronte alla crisi ha sostanzialmente chiuso gli occhi. Ha girato la testa dall’altra parte e ha detto soltanto che bisogna aspettare che la crisi finisca. Ha messo in campo misure effimere e del tutto inadeguate. E ha spento i riflettori dell’informazione. Così ai precari che si sono ritrovati di colpo a zero euro, ai disoccupati, ai cassintegrati non è rimasta che la paura e la disperazione. A un governo così non si offrono pacche sulle spalle o tregue, a un governo così si fa più opposizione, dobbiamo fare più opposizione. La protesta e la rabbia, senza reali interlocutori, ha assunto forme estreme. Abbiamo visto operai sulle gru. Abbiamo visto precari sui tetti. Abbiamo visto lavoratori licenziati fare lo sciopero della fame. E poi non abbiamo visto più niente, perché chi controlla l’informazione televisiva di questo Paese ha ordinato di spegnere le telecamere, ha ordinato di non fare vedere più niente.. Ma quegli operai, quei lavoratori, quei precari che io ho incontrato in queste settimane, ci sono ancora.
Ci sono la loro disperazione, quella delle loro famiglie. E ci sono le loro lotte. Ho cercato di parlare parlato con loro e ho promesso loro che avremmo acceso i nostri riflettori sulle loro attese. Sui loro problemi. Sul loro diritto al futuro. E al lavoro. Dobbiamo e vogliamo reagire, perché il lavoro è un diritto. Dobbiamo farlo anche perché è su questa trincea di libertà e uguaglianza che si gioca il futuro stesso di una politica che voglia dirsi democratica e riformista. Dobbiamo riconoscerlo senza reticenze: la nostra politica è sfidata direttamente, perché la perdita di centralità del lavoro, è soprattutto una sconfitta per il paese, una sconfitta prima di tutto per noi riformisti, per noi progressisti. E dobbiamo anche chiederci : Perché tanti lavoratori non si fidano più di noi? Perché tanti operai non votano più per noi, ma per i nostri avversari? Perché al Nord abbiamo perso tanti consensi nel mondo del lavoro che si sono orientati verso i partiti del centro destra, in particolare verso la Lega Nord? La Lega cattura consensi perché raccoglie spregiudicatamente, ma raccoglie il disagio sociale manifestato dai ceti popolari, la protesta nei confronti del tradizionale modo di fare politica e di amministrare, che è stato rappresentato ed è percepito come ‘romanocentrico’. Non a caso la protesta viene diretta nella stessa misura contro i partiti e contro le istituzioni statali, entrambi sentiti come lontani o e forse anche come ostili. Questa protesta, questo disagio è più acuto nelle aree del Nord. Ma la sfida all’inadeguatezza della politica, della nostra politica, è fatta propria anche da operai che mantengono la loro adesione ai sindacati, comprese le loro componenti radicali ma poi quando votano scelgono a destra. Come reagiamo a questa sfida? Una prima risposta la dico così: tornare ad ascoltare e a riconoscere le aspettative dei lavoratori, di tutti i tipi di lavoratori. Dare riconoscimento significa aprire un dialogo con tutti questi soggetti e con le loro rappresentanze per cercare insieme le risposte adeguate alla complessità di problemi per molti aspetti inediti. Ma c’è una premessa di ordine culturale che riguarda il nostro modo di guardare al mondo del lavoro e alla sua crisi.
Storicamente quando parlavamo di lavoratori negli anni passati intendevamo i lavoratori dipendenti. I subordinati. Gli operai. Sono stati questi gli interlocutori tradizionali della sinistra. Gli altri soggetti del lavoro erano controparte. Spesso avversari. Quando andava bene erano alleati con i quali stringere un patto. Ma il mondo è cambiato e già nella mia mozione ho sottolineato la necessità di un cambio di prospettiva. La necessità, cioè, di allargare questo orizzonte. Di rivolgersi a tutto il mondo del lavoro, perché il lavoro va valorizzato in tutte le sue forme, anche quello autonomo e imprenditoriale, anche quello privato e quello pubblico come richiede la nostra Costituzione. Questo non significa ignorare le diversità di posizioni fra lavoro dipendente, lavoro autonomo e imprese. E non esclude nemmeno la possibilità di un sano conflitto. Sono venuto a Prato, a parlare di lavoro, perché proprio qui, qualche mese fa, ero appena diventato segretario, ho fatto un’esperienza che mi ha colpito e che mi ha fatto capire come sia assolutamente necessario e urgente cambiare prospettiva quando parliamo di lavoro. Ricordo la visita ad una piccola realtà produttiva, una delle tante del settore tessile, alle prese con i morsi della crisi e con la sfida di una globalizzazione sempre più aggressiva. Lì ho incontrato un piccolo imprenditore Andrea Belli e i suoi operai, mi hanno accolto insieme. Si parlava dei problemi, delle prospettive. Dell’ipotesi di ricorrere alla cassa integrazione. Mi spiazzò. Mi disse: o superiamo la crisi tutti assieme, o chiudo. E questa realtà si replica in centinaia e migliaia di casi in Italia. Se non temessi di scomodare una parola importante parlerei di un’etica del lavoro che unisce, in un’ azienda, come in tante altre, chi si impegna per lo stesso obiettivo. E’ la stessa logica vincente del distretto, che vede insieme, nella filiera, piccole imprese, artigiani, operai. E quel che conta è la filiera: si vive insieme, si cresce insieme, ci si salva insieme. È questo quello che fa la differenza. Il distretto è come una squadra, nella quale ognuno, privato, pubblico, enti locali, associazioni di categorie, sindacati, fa la propria parte. Qualcosa di più solido e forte di un semplice patto o di un’alleanza. Credo che avesse questo significato profondo quella manifestazione del febbraio scorso nella quale tutta la città scese in piazza, riunita attorno ad un tricolore lungo un chilometro. E con uno slogan che diceva “Prato non deve chiudere”. Prato non deve chiudere: significa difendiamo il lavoro di tutti. Il lavoro che da ricchezza, certo. Ma anche il lavoro che è civiltà, comunità, libertà.
Ecco. E per questo che ci siamo fatti carico dei problemi e delle esigenze del distretto, presentando una mozione in Parlamento. Per ricostruire una centralità del lavoro, occorre avere la consapevolezza di questo cambiamento, di non ragionare coi parametri del passato. Di quello che c’è di complesso attorno al lavoro. La crisi e i lavoratori, dunque. Ascoltare e riconoscere. E rappresentarli. E per farlo rendere visibili, concrete le nostre risposte. Concrete le nostre iniziative politiche. Essere sui problemi, fare emergere le contraddizioni della destra, costruire con i fatti non solo con le parole, un’alternativa possibile. Oggi ci sono lavoratori di ogni tipo sono esposti a sfide competitive comuni senza precedenti. Queste sfide non si vincono senza un impegno congiunto; a cominciare da quello di rilanciare la crescita e di aumentare la competitività del sistema paese. Solo puntando su una crescita basata sull’innovazione e sulla qualità si può vincere la crisi, si può produrre nuova occupazione. Si può contrastare la tendenza alla depressione dei salari e delle pensioni e al peggioramento delle condizioni di lavoro. L’ho già detto: i lavoratori sono quelli che stanno pagando i prezzi più alti, con la disoccupazione, con la precarietà e con l’incertezza delle prospettive dei giovani, con le tasse che pagano sempre anche per chi le evade. E’ da mesi che il governo fa promesse, ma non prende iniziative concrete per contrastare l’emergenza della crisi, per sostenere i consumi e le imprese. Non lo diciamo noi, faziosi esponenti dell’opposizione, I più attendibili rapporti internazionali dimostrano che le risorse impegnate dal nostro governo per stimolare l’economia sono le più scarse fra tutti i paesi dell’OCSE, quasi nulle. Il Fondo monetario internazionale ha detto che misure per affrontare l’emergenza l’Italia ne ha messe meno della metà degli altri paesi europei. Parliamo di risorse effettive e non di partite di giro. Non solo.
Il governo non aiuta il lavoro e l’economia, ma sta anche smantellando le tutele del lavoro prodotte dal centrosinistra, da ultimo con il patto sociale del 23 luglio 2007. E sta allargando le possibilità di contratti precari e a termine. Rifiuta di stabilizzare i tanti precari del settore pubblico. Nella scuola ha realizzato il più grande licenziamento di massa nella pubblica amministrazione: 130.000 persone che si sono ritrovate di colpo a zero euro. Se con una mano il governo dice di volere aiutare i lavoratori che perdono il lavoro con gli ammortizzatori sociali, poi con l’altra mano ne licenzia subito 130 mila. Ha indebolito la normativa sulla sicurezza del lavoro che il centrosinistra aveva varato dopo anni di attesa con il consenso di tutte le regioni. Sta attaccando e demonizzando i lavoratori pubblici, considerandoli tutti incapaci o sfaticati. Senza fare niente per motivarli. Queste politiche non vanno solo contro gli interessi dei lavoratori; hanno indebolito l’intero paese. ci fanno perdere posizioni perché rinunciano a valorizzare le nostre risorse migliori: il capitale umano e le energie di milioni di persone. Ma non possiamo limitarci a denunciare la gravità di questa situazione. Per questo abbiamo avanzato proposte precise, le abbiamo portato in parlamento proprio perché abbiamo chiesto che ci fosse la responsabilità di una risposta, un sì o un no. Le hanno bocciate tutte. Hanno detto no alla nostra proposta di garantire tutele adeguate a tutti i lavoratori minacciati dalla crisi, a tutti i lavoratori che perdono il proprio posto di lavoro a prescindere dal tipo di contratto, bisogna essere tutti garantiti allo stesso modo, non ci possono essere differenze anche lì.. Hanno rifiutato il nostro progetto di dare sostegno ai lavoratori e alle famiglie in condizioni di povertà estrema, attraverso un contributo di solidarietà sui redditi più alti, da quelli dei parlamentari in su. E cosa c’è di politicamente più corretto e moralmente più giusto che in un momento di crisi chiedere ha chi ha di più di aiutare chi è più porvero? Hanno rifiutato le proposte avanzate insieme a tutte le forze sociali, sindacati e associazioni imprenditoriali, per sostenere con forme di detassazione i redditi da lavoro e da pensione. Noi insisteremo. Concentreremo le nostre iniziative su quelle che consideriamo le priorità di una politica per il lavoro. Dico i titoli di questo albo degli impegni: la sicurezza e la tutela del reddito, la buona occupazione e la lotta alla precarietà, il welfare universale e pensioni adeguate, educazione e formazione permanente all’altezza della società della conoscenza. Ma cosa vuol dire sicurezza e garanzie di reddito a tutti i lavoratori?
Prima di tutto significa una vera riforma degli ammortizzatori sociali. Una riforma che garantisca a ogni lavoratore un reddito nel caso di perdita o di sospensione dal lavoro. I cosiddetti ammortizzatori in deroga varati dal governo sono insufficienti e ingiusti. Lo sono perché non danno né reddito né garanzie a quelli che hanno più bisogno, i precari con lavori a termine, i contratti a progetto, le false partite Iva. Quando il governatore della Banca d’Italia Draghi avvertiva, inascoltato, che 1.600.000 lavoratori erano privi di tutela, lanciava un allarme giustificato. Ora questi 1.600.000 non sono più solo un numero: Sono persone in carne e ossa che il governo dimentica e inganna. E anche i dipendenti con contratto regolare sono privi di sicurezze. Quelli che hanno la cassa integrazione ordinaria stanno per perderla perché il prolungarsi della crisi ha consumato il periodo di copertura. E’ urgente che il governo decida di prolungarla. Le piccole e medie imprese e i loro dipendenti spesso non riescono a beneficiare delle casse in deroga a volte semplicemente non sanno che potrebbero farlo o non sanno quale canale utilizzare, altre volte non ci riescono perché le procedure sono complicate e richiedono provvedimenti caso per caso. E poi non è giusto che chi resta senza lavoro abbia bisogno di una deroga cioè di una “concessione discrezionale” caso per caso, deve essere un diritto, garantito a tutti. Noi vogliamo che le tutele in caso di crisi siano un diritto esigibile per tutti. Questo chiediamo al governo subito. E lo chiediamo con una sola voce, insieme con i sindacati e insieme con gli imprenditori. Questo autunno e il prossimo inverno saranno decisivi. Finora le imprese hanno cercato di evitare i licenziamenti, ma non possono resistere a lungo senza aiuti. Rischiamo di veder chiudere centinaia di imprese, di indebolire drammaticamente il nostro tessuto produttivo, di portare alla povertà di colpo migliaia di persone. Oltre al reddito di chi resta disoccupato va sostenuto il reddito di chi lavora e di chi è in pensione. La crisi non colpisce tutti nello stesso modo. Sono i lavoratori e i pensionati quelli che hanno visto cadere il loro potere d’acquisto. Mentre i profitti e le rendite sono cresciute di molto anche durante la crisi.
Il governo deve trovare le risorse per risarcire questi cittadini: in modo diretto e immediato, con una detassazione dei loro redditi che ripristini il potere d’acquisto che hanno perso. Anche qui, abbiamo lanciato una sfida al governo: cominciamo subito, hanno fatto tanti decreti, ne facciano uno in più per detassare la tredicesima. Si può fare subito. E in prospettiva impegniamoci per riequilibrare il peso del fisco: troppe tasse sul lavoro, sono 5 punti in più della Francia – e troppo poche sulle rendite, così come sui patrimoni e sui consumi. E ancora appoggiamo la richiesta, avanzata anche dai sindacati, di detassare gli aumenti contrattati in sede decentrata e quelli legati alla produttività. Una misura necessaria per contribuire alla crescita. Siamo quindi favorevoli a potenziare la contrattazione decentrata, sia nelle aziende sia nei territori. Sosteniamo una contrattazione innovativa che veda protagonista un sindacato autorevole e autonomo. Siamo convinti assertori del valore dell’autonomia sindacale. Ma autonomia non significa indifferenza. Siamo interessati, continueremo a dirlo , che l’Italia ha bisogno della presenza di un sindacato forte, unitario e democratico, anche nella sua vita interna. -Per questo auspichiamo un accordo fra le confederazioni che stabilisca regole certe per la rappresentatività sindacale, basata sulla certificazione degli iscritti e dei voti conseguiti nelle elezioni in azienda. Una posizione unitaria del sindacato consentirebbe di recepire queste regole in una legislazione di sostegno. Siamo anche interessati a diffondere la partecipazione di lavoratori alla vita e agli utili delle imprese come previsto nelle proposte che abbiamo avanzato in Parlamento. Non si tratta di introdurre una cogestione che confonda i ruoli nell’azienda né tanto meno di imporla per legge. Però i tratta di valorizzare, attraverso la libera contrattazione, il coinvolgimento dei lavoratori nelle vicende e nei risultati aziendali, secondo le migliori prassi europee e anche perché questo serve a superare prima la crisi, non mettendoli gli uni contro gli altri, ma mettendoli insieme per superarla. Una crisi che improvvisamente ci ha rimesso di fronte ad una parola per molto tempo negata: povertà. La crisi sta impoverendo centinaia di migliaia di famiglie, specie lavoratori e pensionati. Oltre 3 milioni sono sotto la soglia della povertà assoluta. In Sicilia il livello di povertà ha quasi raggiunto il 50%. In tutto il paese sono raddoppiati i protesti. Il rischio di insolvenza per le bollette domestiche e i mutui e stimato intorno al 38%. I poveri esistono. E non sono solo quelli che non hanno mai avuto un lavoro o che sono precipitati nel baratro della disoccupazione.
C’è una fascia sempre più larga di persone a rischio: sono quei lavoratori, e sono tanti, che hanno salari bassi, indegni di un paese civile. I lavoratori poveri, e sono anche fra noi. E sono gli stessi che sono già penalizzati dalla precarietà del lavoro: lavoratori temporanei, collaboratori, false partite Iva. Noi non possiamo accettare che lavoratori impegnati a pieno tempo, spesso in occupazioni qualificate, guadagnino 600 euro al mese, magari senza essere regolarizzati. Per questo abbiamo proposto di introdurre anche in Italia, come in tutti i maggiori paesi occidentali, un salario minimo legale sotto il quale non è possibile retribuire chi lavora, non gli si può dare meno di quella soglia, qualsiasi lavoro faccia. Il livello di questo salario va definito d’intesa con le parti sociali, ma deve essere una garanzia per tutti, anche per i lavoratori precari e per chi opera in settori marginali, che non sono coperti dalla contrattazione collettiva. Deve servire di base per una vita civile a chiunque lavora e può essere utile alla contrattazione sindacale per sostenerla e migliorarla proprio nei settori e nei gruppi più deboli. Tutele, dunque. E sicurezza sociale. Ma anche sostegno del mercato del lavoro. Cioè politiche attive e efficaci servizi all’impiego che aiutino all’inserimento e al reinserimento al lavoro di chi è in difficoltà, come esistono nelle migliori esperienze europee e in alcune regioni italiane. E insieme a queste un sistema di formazione professionale e continua capace di favorire la riqualificazione e il reimpiego di tutti coloro che perdono il lavoro, ma anche di quelli che sono colpiti dalle crisi, per prevenire la disoccupazione. Tutto questo disegna il profilo di un welfare moderno. Le grandi trasformazioni dell’economia, le pressioni della competitività con le conseguenti variabilità e incertezze del lavoro non si possono affrontare con gli strumenti del passato, né con regole diverse per i diversi lavori, che aumentano le diseguaglianze invece di tutelare le persone. Occorre ricreare una base di tutele e di diritti comuni a tutto il mondo del lavoro, che superi le divisioni e ridia prospettive di concreta solidarietà a tutti i lavoratori. Una base comune che deve riguardare i principali bisogni legati alle vicende della vita lavorativa: le tutele in caso di disoccupazione, il salario minimo di cui ho parlato, un reddito di base per chi non ha lavoro, tutele in caso maternità, malattia e infortunio, una pensione di base finanziata fiscalmente che garantisca a tutti un livello di reddito adeguato alle esigenze della vita anziana, cui vanno aggiunte le pensioni contributive. E a proposito di pensioni. Nei giorni scorsi il governatore Draghi ha posto il tema dell’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento come una necessità da affrontare. E noi dobbiamo avere il coraggi di dire che non abbiamo pregiudizi.
Siamo convinti che sia arrivato il tempo di un patto tra generazioni con il quale chiedere ai genitori di lavorare qualche anno in più se questo serve per assicurare un futuro previdenziale e ammortizzatori sociali ai figli, allora si può fare. Il tema del lavoro, il lavoro che non c’è, che è incerto, che può finire. Tutto ciò è ancora in cima alle nostre preoccupazioni. E alle preoccupazioni degli italiani. Ma l’obiettivo della piena e buona occupazione, tanto più in uno scenario di crisi come quello che viviamo, è destinato a restare un’utopia? Non credo sia così. E’ possibile raggiungerlo, quell’obiettivo. Ma servono buone politiche. Serve promuovere una crescita equilibrata dell’economia reale, e non della finanza, aiutando le imprese che innovano, che creano occupazione qualificata e stabile, non quelle che vivono di rendita. Ci sono settori in cui l’Italia può far pesare i suoi saperi, la sua capacità tecnologica, i talenti della nostra ricerca. E penso in particolare al settore della green economy. Secondo i dati dell’Ocse i paesi che più hanno investito nella green economy mostrano come questa abbia un grande potenziale di creare lavoro, lavoro di buona qualità. L’amministrazione Obama mira a creare 450.000 “green collar” jobs nei prossimi anni. La Corea ha lanciato un “green New Deal” con l’obiettivo di creare 1 milione di nuovi posti nei prossimi 4 anni. Il Giappone raddoppierà l’attuale occupazione nelle industrie dell’economia dell’ambiente. E la Germania arriverà a 900.000 lavori verdi nel 2030 ma nei servizi di protezione dell’ambiente lavorano già 1milione e 800 mila persone. I nuovi lavori verdi saranno più puliti, più ricchi di professionalità e più stabili. L’ambiente e la green economy sono i pilastri del nuovo “welfare umano”. E se parliamo di nuovo welfare, allora dobbiamo rimettere al centro dell’attenzione gli anelli più deboli delle politiche del lavoro: i giovani e le donne. E allora.
Serve garantire a tutti un’educazione di qualità nel corso della vita, favorendo l’occupazione qualificata dei giovani con migliori strumenti di transizione dalla scuola al lavoro, e combattendo la precarietà e la “sindrome del ritardo” che ne ritarda sempre di più l’autonomia dalla famiglia. Serve incentivare il lavoro delle donne con misure che favoriscano, aiutino la conciliazione fra lavoro e vita familiare e la condivisione del lavoro di cura e quindi rafforzino la libertà di scelta delle donne, attraverso congedi retribuiti per entrambi i genitori, servizi di cura all’infanzia e agli anziani, un impegno culturale che promuova la redistribuzione dei ruoli fra uomini e donne all’interno della famiglia, perché le donne continuano a fare un doppio lavoro anche quello che potremmo, in buona parte, fare noi uomini con loro. Mettere in campo politiche attive e di valorizzazione del lavoro significa soprattutto dare un posto centrale alla formazione, da quella di base a quella professionale e continua nel corso della vita. Nella nostra società della conoscenza il grado e la qualità dell’educazione è condizione essenziale per una cittadinanza attiva e per avere opportunità di buon lavoro. E’ un elemento fondante della stessa identità personale. Per questo il diritto all’educazione continua deve essere al centro del nuovo welfare. Migliorare l’educazione, rivalutare la cultura tecnica, oggi spesso deprezzata, serve a dare ai giovani le stesse opportunità che hanno i loro coetanei europei. Formazione, professionalità e merito. Merito è una parola della mia mozione. Vale anche per il lavoro. Dobbiamo valorizzare il merito nelle organizzazioni economiche e nella vita sociale. Dobbiamo dirlo con chiarezza: qui ci sono ritardi da recuperare per tutti, tutti abbiamo la copla di troppi ritardi, Se davvero vogliamo cambiare l’Italia, se davvero vogliamo liberare il futuro da antiche incrostazioni, da insopportabili ingiustizie, da inaccettabili privilegi, da opprimenti pigrizie, allora dobbiamo cominciare riconoscendo e premiando il merito. A cominciare dai luoghi del lavoro. E c’è un’altra parola che voglio usare parlando del lavoro. E’ la parola dignità. Il lavoro è fatica. E’ necessità. Ma è prima di tutto dignità. Ad esso è legato il nucleo decisivo dei diritti di cittadinanza, a cominciare dalla libertà. Non a caso le democrazie contemporanee sono fondate sul valore del lavoro. Ed è importante “se” si lavora, ma anche “come” si lavora. La gratificazione e la possibilità di autorealizzazione che sono legate al lavoro. Per questo merito e dignità stanno necessariamente insieme.
E’ difficile dire queste cose oggi, in questo tempo dominato dalla crisi, certo, ma segnato ancora di più da un pensiero ultraliberista che ha imposto ad una generazione, in nome del mercato senza regole e del profitto senza limiti, come unici obiettivi della vita individuale e sociale, l’orizzonte della precarietà e dell’incertezza. Ha scritto, a questo proposito, Nadia Urbinati, delle parole molto chiare e molto dure: “l’incertezza per il futuro non è la stessa cosa del rischio e della libertà di scelta: è una condizione paralizzante perché non consente di fare progetti e quindi scoraggia l’iniziativa, dequalifica il lavoro, deprime la produttività. Infine incatena alla propria condizione non meno del vituperato posto fisso”. Dobbiamo cambiare schema. Dobbiamo cambiare anche la scala dei valori. Delle priorità. La gerarchia delle cose che contano è la nostra prima sfida. Rimettiamo in alto il lavoro, il suo valore, la sua qualità come fattore decisivo di una democrazia vitale. E’ il nostro impegno. Qui. Adesso.

Prato, 15 ottobre 2009