partito democratico

Grande affluenza

Alle 17 e 30 hanno votato circa 2 milioni di persone.
Due anni fa alla stessa ora i votanti erano stati 1,5 milioni, ora per l’esattezza sono 1.962.397.
Le regioni con più votanti: 300mila in Emilia Romagna, 250mila in Lombardia e 200mila nel Lazio.

Alle 11,30 nei 10.000 seggi in cui si vota per le primarie del Pd avevano già votato 876.570 persone. Lo ha reso noto, a nome della commissione congresso del Pd, Maurizio Migliavacca che ha commentato così il dato: “Sono numeri importanti che fanno pensare ad una grande partecipazione. E’ una bella giornata per la democrazia”.

Le regioni dove si è votato sinora di più sono l’Emilia Romagna e la Lombardia.

“Voglio ringraziare – ha detto Dario Franceschini – tutte le persone che stanno votando alle primarie. So che c’é tanta gente perbene che si sta recando alle urne per esprimere il proprio voto. E’ una grande festa della democrazia, a prescindere da chi stiano votando”.

Ignazio Marino è entusiasta del dato della mattinata: “E’ il 20% in più del 2007, quando alla stessa ora avevano votato circa 600 mila persone. Un dato che dimostra il desiderio di cambiamento degli italiani”.

Per Pier Luigi Bersani le primarie “hanno risvegliato la nostra gente e consolidato la convinzione che noi siamo la normalità. In tutti i Paesi democratici ci sono partiti che discutono, in trasparenza, sul proprio futuro e sui propri vertici; solo noi abbiamo un partito con un padrone, ma è quella l’eccezione, noi siamo la regola, nei partiti deve regnare la democrazia”.

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Viaggio nei seggi di Roma, ascoltando gli umori degli elettori in coda
Un popolo grande, preso a metà tra delusione e fiducia. Con una gran voglia di contare
In fila ai gazebo, tra incertezza e speranza
“Noi ci siamo, e ora torni la politica” di MARCO BRACCONI

ROMA – La gente del Pd c’è. E questo è un fatto. Si vede e si conta davanti ai seggi-gazebo assediati da lunghe code. Uno in fila all’altro, gli elettori democratici non smettono di dire a sé stessi e al Paese che esistono, resistono, non si arrendono. Ma le prime vere primarie del Partito democratico, dopo quelle dall’esito già scritto per Prodi e per Veltroni, non sono elezioni di un popolo in festa. Sono elezioni di un popolo che esce di casa per scegliere e per dire ci siamo. Ma intanto, oggi più che mai, si chiede chi siamo, e perché non riusciamo ad essere ciò che vorremmo essere.

Il popolo grande del Pd c’è, e questo è un fatto. Estrae la tessera elettorale, si registra, dona due euro e mette la croce sulla sua idea di futuro. Ma dentro sente mescolarsi tanti sentimenti. Troppi. Basta mettersi in fila con gli elettori. Ascoltarli. C’è la passione, la speranza e la fiducia di sempre. Ma davanti ai gazebo di Roma, in questa domencia di ottobre dal cielo incerto, sono in coda anche pensieri di rammarico, una punta di delusione, un generale senso di preoccupazione.

Il nostro giro comincia da Piazza Mazzini, un tiro di schioppo dalla Rai e palazzi umbertini della borghesia medio-alta. Si allunga a Primavalle, case popolari che una volta erano tutte rosse. Rientra per la Balduina, palazzine anni cinquanta e un passato di quartiere “nero”. Finisce al Portuense, un chilometro in linea d’aria dall’ufficio (fino a ieri) di Piero Marrazzo alla Pisana.

Un minuto in fila, e non si scappa. Del caso del governatore si parla ovunque. “Berlusconi è ancora lì, invece Piero si è dimesso e per molto meno”. L’autosospensione, a poche ore dalle primarie, ha tolto a tutti un peso grande così. Ma nessuno dimentica le bugie della prima ora, e le mezze verità della seconda. “Ha sbagliato, doveva denunciare, subito, e non aspettare”.

Anche sul caso Marrazzo il popolo grande del Pd sconta il suo conflitto più antico. Militanti ed elettori ragionano politicamente, nessuno nega gli errori né sorvola sui punti oscuri della faccenda. C’è chi parla di manine dei servizi, o di strategia della diffamazione. “Non doveva negare tutto, ma sia chiaro che ognuno è libero di vivere la sua vita sessuale come vuole”, dicono le teste in fila ai seggi democratici. Ma sotto quelle stesse teste, la pancia di chi conserva ancora il ritratto di Berlinguer in cerata d’alto mare dice che no, quello che è successo non si può sentire: “Un presidente del Pd nelle strade dei trans non è il mio presidente”.

“Uguali ma diversi”, recitava il refrain del morettiano Palombella rossa. Anche di qui passa la resurrezione di un partito in cerca di identità. Della sua stessa ragione di essere. Dell’orgoglio della sua gente. Oggi più che mai quei due euro donati alla democrazia e alla speranza chiedono in cambio il ritorno della politica, la restituzione dell’appartenenza, il conforto dell’unità.

“Bene il confronto, anche duro, ma Bersani, Franceschini e Marino hanno dimenticato che il partito è uno solo…”, si dice aspettando il proprio turno. Del resto, è la prima volta. Quelle per Prodi e Veltroni furono primarie di incoronazione, plebiscito, furore di popolo. Queste sono elezioni vere. Ma troppi, tra quelli che oggi si sono messi in fila, avvertono che qui e là la misura è stata passata. “Pesano i dispetti personali, qualche colpo basso, il discorso pubblico di un partito che in questa campagna è diventato talvolta guerriglia fratricida”.

Ma il popolo del Pd c’è. E’ qui anche per dire che vuole una leadership chiara, un partito vero, una idea di futuro. Soprattutto, vuole la politica. Se le primarie fossero una finale di Champions, chi è in coda per votare Franceschini direbbe che Bersani non va bene perché “fa poco movimento, troppo tatticismo, e copre esclusivamente la fascia sinistra”. E chi vota per l’ex ministro risponderebbe che la manovra di Dario è troppo eclettica e poco attenta agli schemi”. Se il giorno dei gazebo fosse una finale, chi vota Marino direbbe che gli altri due “sono troppo attendisti”, e che per fare gol nel paese del Vaticano bisogna sparare una bomba dal dischetto.

Eccola, la buona notizia di questo 25 ottobre. Tra la gente del Pd gli steccati degli ex stanno cadendo, sono caduti. A pochi importa che Bersani sia cresciuto a Marx e tortellini, e Franceschini a pane e De Gasperi. Se si ascoltano i sospiri della gente in coda si capisce che il popolo democratico non sta votando sulle eredità, ma sul presente e il futuro. “Se anche quelli lì lo capissero…”, dice qualcuno in polemica con i suoi dirigenti.

Sinistra o centro, ex dc o ex Pci. I soliti distinguo. Quelli che ancora contano, e quanto, nelle segrete stanze degli apparati. Ma in strada le cose vanno in un altro modo. Per chi oggi mette i due euro nel bussolotto democratico contano solidità e simpatia personale, progetto, allenze. E le parole per scegliere sono laicità, lavoro, capacità di ricostruire. “Se solo lassù lo capissero”.

Le primarie dell’incertezza e della resistenza smontano boatos, dicerie, interpretazioni forzose. Pochissimi dicono di votare Marino perché “è fuori dagli apparati di potere”. Mettere la croce sul chirurgo significa per quasi tutti solo difendere la laicità: “Ma per me Dario in questi mesi ha fatto bene, e D’Alema resta il migliore”.

“Che almeno da domani si cambi passo”, è la speranza di chi ha messo la sua scheda nell’urna. I volontari consegnano ai votanti una mollettina verde, con scritto io ci tengo. Ma a cosa? “Io tengo ad un partito che sia tale, a un leader che da domani lo unisca, gli dia forza, lo faccia vincere”. Tanti, e verrebbe da dire tutti, alal fine dicono che “vada come vada, ma si chiuda oggi, con un vincitore sopra il 50%”. Che si riparta, finalmente.

Poco prima delle 20 ai gazebo ci sono ancora code. Per smaltirle, alcuni seggi rimarranno aperti. Non è un giorno di festa. Sono primarie di un popolo che ha tante domande, qualche delusione, forse un po’ di nostalgia. Ma il popolo del Pd c’è. E anche questo è un fatto.
da www.repubblica.it