attualità

“Quel patrimonio di tre milioni”, di Ilvo Diamanti

A primarie concluse, la prima reazione è di sollievo. E’ finita. Questa lunga, estenuante, complessa maratona congressuale. E al di là di valutazioni di merito, è finita bene.

Senza contraddizioni sostanziali fra il voto degli iscritti e quello degli elettori, alle (cosiddette) primarie. Senza bisogno di ricorrere al ballottaggio. Oggi, finalmente, il Pd ha un segretario, Pierluigi Bersani. Ma soprattutto ha scoperto che può ancora contare su una base enorme. Quasi tre milioni di elettori e simpatizzanti. Che domenica hanno partecipato alle primarie. Nonostante tutto. Molti, rientrati dall’esilio, per una volta ancora.

Bersani, con il 54% dei voti validi, ha distanziato gli altri due candidati. Che, pure, hanno riscosso un buon risultato. Franceschini ha raccolto un terzo dei voti. Marino ha ottenuto il 12%, il 4% in più rispetto al voto degli iscritti. Il dibattito congressuale non ha prodotto grandi emozioni. Identità chiare. Parole-chiave. Spendibili sul mercato politico, come slogan, dall’intero Pd. Tuttavia, alla fine, resta l’immagine di questa grande partecipazione. Un investimento sulla fiducia. Che sarebbe irresponsabile dissipare (ancora).

Sugli elettori delle primarie vorremmo proporre alcune considerazioni. Provvisorie, come i dati forniti dal Pd. (Ieri sera alle 18: poco più di 2 milioni, circa tre quarti del totale, incompleti soprattutto per il Sud).

1. La prima riguarda la partecipazione complessiva stimata dal Pd. Circa 2 milioni e 800 mila elettori – anche calcolando la presenza di giovani oltre i 16 anni e gli immigrati regolari – sono tanti. Circa il 35% degli elettori alle europee. Più di un elettore su tre. Nonostante la delusione verso un partito disorientato. Un’opposizione incerta. Una leadership indefinita.

Le ragioni di una partecipazione così ampia sono diverse. (a) Anzitutto, per la prima volta, si è trattato di una competizione vera. Non era mai avvenuto prima. Nel 2005 le primarie erano servite a legittimare l’investitura dell’unico possibile candidato premier. Romano Prodi. Ma anche nel 2007 si sono trasformate in un plebiscito per Veltroni, visto che l’unico vero sfidante, Bersani stesso, dopo un primo momento, rinunciò. Stavolta, invece, i candidati si sono affrontati in modo serio e aspro. (b) Un secondo incentivo alla partecipazione è riconducibile alla lunga fase congressuale. Per alcuni versi, defatigante. Ha tuttavia costruito una rete di tifosi e sostenitori organizzata e diffusa in tutto il paese. (c) Il terzo motivo è che gli elettori di centrosinistra sono pronti a mobilitarsi, se si forniscono loro occasioni serie e ragionevoli ragioni. Come hanno fatto anche stavolta. Quasi per riflesso condizionato. Alcuni – più di quanti si pensi – per disperazione. Come estremo atto di fiducia. Per non lasciare nulla di intentato.

2. La seconda considerazione riguarda la distribuzione territoriale della partecipazione alle primarie. Il cui dato è condizionato dall’andamento dello spoglio, incompleto e lungo. Soprattutto in alcune aree. Calcolata sul voto alle europee dello scorso giugno, raggiunge il massimo nelle zone rosse e nel Nordest. La partecipazione appare rilevante anche al Sud (dove, tuttavia, lo spoglio procede a rilento). Mentre è più ridotta nel Nordovest e nelle regioni centromeridionali: Lazio, Abruzzo e Molise. Le regioni del Nord sono quelle dove la partecipazione alle primarie appare più ampia rispetto agli iscritti. Soprattutto il Nordest. Mentre la partecipazione nelle zone rosse è coerente con la media nazionale (superiore di circa due volte e mezza agli iscritti). Infine, è più bassa nel Centro-Sud e nel Sud e nelle Isole. Questi indici suggeriscono diversi tipi di orientamento politico. Nelle regioni del Nord, in particolare, sottolineano l’importanza del voto di opinione. Espresso da elettori disposti a sostenere il Pd, ma senza atti di fede. Nelle regioni rosse, invece, la partecipazione alle primarie si è appoggiata, anche in questa occasione, alle tradizionali reti di appartenenza partitica. Nel Sud e nel Centrosud, infine, sembrano aver pesato maggiormente i meccanismi del voto personale e delle lobbies localiste. Mentre la mobilitazione sollecitata da motivi di identità e d’opinione appare meno propulsiva che altrove.

3. La terza osservazione riguarda il voto ai candidati. La base elettorale più caratterizzata è certamente quella di Marino. Che ha ottenuto i livelli più elevati nelle regioni del Nord e nelle province metropolitane (sempre oltre il 15%). Bersani, il vincitore, ha raggiunto il 60% nelle regioni del Sud (oltre il 70% in Calabria) e delle Isole. Ma ha conseguito un buon risultato anche nel Nordovest e nelle zone rosse. Ha peraltro vinto in quasi tutte le regioni. Il che ne legittima ulteriormente il successo. Franceschini, infine, appare il più “trasversale”, dal punto di vista della distribuzione territoriale dei consensi. In grado di intercettare circa un terzo dei voti dovunque.
Mancano, per ora, dati sulla composizione sociale e anagrafica degli elettori. Ci fidiamo dell’esperienza diretta – nostra e dei nostri “testimoni privilegiati”. Raccontano di una base adulta e anziana, ma con un’ampia presenza femminile. I giovani si sono visti di meno. Ma abbiamo l’impressione che si tratti di un problema più ampio. Demografico oltre che culturale. Si vedono poco perché sono pochi.

Finita questa infinita maratona congressuale, il maggiore partito di opposizione potrà finalmente fare opposizione. Se ne sarà capace. Oggi ha un segretario, legittimato dal voto degli iscritti e degli elettori. Ma soprattutto: le primarie gli hanno restituito una base ampia. Milioni di persone. Vere. Pronte a uscire di casa e a cercare un seggio provvisorio, presidiato da militanti. Per votare. Dopo aver pagato una somma, per quanto piccola.

Un’indicazione importante – sorprendente – al tempo della democrazia del pubblico. Dove è convinzione condivisa, anche nel centrosinistra, che lo spazio politico coincida con quello mediatico. In particolare con la televisione. La partecipazione alle primarie rammenta che la politica si può (vorremmo dire: si deve) fare anche sul territorio. Anche nella società. Per il PD, un’avvertenza utile. Forse l’ultima.

La Repubblica, 27 ottobre 2009