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“Il giorno della speranza” di Umberto Veronesi e Gina Kolata

Guarire di cancro si può, lo sappiamo. Ora la domanda è cosa significa e per chi vale la guarigione. Non è un dettaglio. Quando parliamo di malattia ogni singola parola conta, ogni sfumatura ha un senso per tracciare il confine fra realtà e speranza. La realtà è che oggi guariscono piu’ della metà dei malati di tumore, e per guarigione intendiamo un periodo significativo (diciamo decine di anni, perché il “per sempre” è una definizione che non appartiene alla scienza) di buona qualità di vita. Penso che questo sia un nuovo punto importante del principio del guarire : nel valutare la vita senza malattia c’ è un “quanto”, ma c’ è anche un “come”. E in questo come, ci sono i progressi più straordinari della ricerca oncologica. A volte si tratta di contenere il più possibile la malattia, renderla cronica, compatibile con una vita normale, guadagnando tempo per le nuove cure, che nel frattempo la ricerca troverà. In alcuni casi si tratta di guadagnare giorni per capire se il tumore ha un tallone d’ Achille, un punto debole inaspettato che lo può rendere vulnerabile alle nostre cure. Andrebbe subito chiarito che parlare di guaribilità del “cancro”, è una sorta di convenzione. Sotto questo nome la scienza ha riunito infatti almeno cento malattie diverse, che hanno manifestazioni comuni o simili, e che soprattutto hanno la stessa origine ( un danno al DNA) , per poterle studiare più facilmente. Per questo dire cancro è un po’ come dire infezione o virus, termini con cui ci riferiamo a diversi processi infiammatori o attacchi virali in organi diversi del nostro corpo. Quindi, il 50% di guaribilità significa che molti tipi di tumore guariscono nella gran maggioranza dei casi, e altri invece sono ancora fuori controllo. In ogni caso il risultato è che oggi curiamo più forme di tumore e le curiamo meglio. Primo perché siamo riusciti ad anticipare la diagnosi, grazie ad una nuova cultura della malattia. Fino a pochi anni fa, quando il cancro era “l’ innominabile” , i nostri nemici erano la negazione e la rimozione. Oggi a queste si sono sostituite la consapevolezza e la partecipazione, che hanno innescato un meccanismo virtuoso nei confronti delle terapie, incoraggiandole a varcare nuove frontiere. La chirurgia è stata la prima a trarne i vantaggi. Di fronte a tumori di dimensione sempre più ridotta (per il tumore del seno siamo arrivati all’ impalpabile, cioè una lesione che neppure la mano esperta del senologo, ma solo la tecnologia, riesce ad individuare) i chirurghi sono stati stimolati a inventarsi tecniche più conservative, che evitassero, ove possibile, le mutilazioni. Anche nel mio caso è stato così: mai avrei potuto pensare di osare l’ abbandono della rimozione totale del seno malato, che non più di trent’ anni fa era un dogma inderogabile per l’ efficacia della cura, se non me l’ avessero chiesto donne con tumori molto piccoli, in nome della loro vita e della loro bellezza. Il modello della chirurgia è stato seguito a ruota dalla radioterapia che è diventata più mirata ed oggi ricerca nuove particelle, come gli adroni, che garantiscono il minimo di invasività arrivando ad aree fino a ieri irraggiungibili, come certe parti dell’ occhio. Ai raggi intelligenti sono seguiti i farmaci intelligenti, (vale a dire le molecole che non distruggono le cellule sane del nostro corpo) che, anche se sono ancora poco numerosi, hanno segnato una svolta enorme per il futuro, perché sono la prova concreta che anche la farmacologia ha abbandonato l’ equazione più distruzione uguale più efficacia. Alla ricerca della mininvasività per la qualità della vita si è attivata tutta la scienza: oggi ci sono terapie sperimentali con ultrasuoni, con isotopi radioattivi, con nuove tecniche di radiazioni come Cyberknife, con il calore, con il laser e così via. Anche la tecnologia ha dato una spinta fortissima al miglioramento delle cure attraverso la rivoluzione della diagnostica per immagini. Per risolvere dubbi diagnostici occorrevano anni, mesi; oggi gli anni sono diventati giorni e i mesi ore. Ultima conquista, e non per importanza: abbiamo rimosso quasi interamente dal percorso di cura il dolore, che per retaggi culturali antichi era considerato quasi una necessità insita nella malattia. Oggi si sta diffondendo il modello di ospedale senza dolore, dove la sofferenza fisica è considerata un effetto collaterale da annullare, un parametro da misurare e considerare nella scelta delle terapie, un sintomo inutile e dannoso, che ha il solo risultato di togliere lucidità e, a volte, dignità alla persona malata. Tutto questo ha contribuito a mettere fine al “terrorismo” del cancro, quando le cure erano uno spauracchio maggiore della malattia stessa, tenendo lontana la gente dalla diagnosi precoce. Certo sappiamo bene che questo non basta e che ci sono punti deboli e anelli mancanti. Per alcuni tumori ancora non abbiamo strumenti di diagnosi precoce, per altri non riusciamo a cambiare i comportamenti che li provocano, come per il fumo di sigaretta, che continuaa causare vittime di cancro del polmone. Parallelamente aumenta il numero di nuovi casi di cancro per le note ragioni “ambientali”, come gli stili di vita e gli agenti cancerogeni, su cui però la ricerca scientifica non può attivamente intervenire, se non producendo la conoscenza necessaria all’ azione. Cosa che ha fatto in modo sorprendente negli ultimi 40 anni. Il processo conoscitivo realizzato è enorme ed ha prodotto una rivoluzione che ancora non trova il suo specchio nelle applicazioni. Oggi sappiamo che le lesioni più frequenti responsabili dei tumori sono solo una decinae questo significa che l’ ideazione di farmaci capaci di colpire selettivamente le cellule tumorali, che presentano queste lesioni, è una prospettiva reale. Oggi di cancro ci si ammala di più, ma si iniziaa morire di meno edè il momento in cui la traduzione dei risultati della ricerca in benefici reali per i malati da ipotesi comincia a diventare possibilità concreta.

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Il giorno della speranza, di Gina Kolata*
Il Centro per la cura dei tumori “M.D. Anderson” ha una sua dichiarazione di intenti, un motto che chiunque vi lavori, dal presidente al personale addetto alla pulizia, conosce e ripete alla stregua di un precetto dottrinale: «Distruggere il cancro in Texas, nella nazione, nel mondo intero». Per i quasi 90.000 pazienti che quest’ anno si rivolgeranno a questo centro il tempo occorrente a trasformare in realtà tale missione non sarà mai troppo breve. I pazienti arrivano accompagnati dai loro famigliari nel più grande ospedale del mondo per la cura dei tumori da ogni latitudine del pianeta, lasciando spesso dietro di sé il lavoro e i figli affidati ai parenti per mesi interi. Alcuni di loro affittano appartamenti o soggiornano in camper o case mobili parcheggiate nei dintorni dell’ ospedale. Vi entrano attraverso una lobby dal soffitto altissimo, decorata con acquari pieni di pesci, nella quale vorticano prodigandosi in loro aiuto volontari pieni di energia e di buonumore. Tutti i pazienti arrivano alla ricerca di una sola cosa: speranza. Non c’ è spazio per gli equivoci, in ogni caso: questa è la linea avanzata del fronte della demoralizzante guerra contro una malattia che è ancora in buona parte incurabile. I medici sono invitati a fare ogni tentativo possibile per salvare un paziente. Equando le assicurazioni tentennano e ritirano la loro copertura, loro afferrano ripetutamente il telefono nella speranza di convincerle a pagare quelle che potrebbero essere terapie anticonvenzionali. Il governo federale assegna più fondi per la ricerca sul cancro a questo ospedale che a qualsiasi altro e il centro pullula di specialisti in ogni possibile forma di tumore, anche le più rare. “Medicare” offre generosi rimborsi spese, e l’ ospedale cure che superano di gran lunga quelle accessibili nella maggior parte dei centri di questo tipo. «Dico sempre ai giovani medici che iniziano a lavorare qui che il limite più grande è l’ immaginazione» dice il dottor Martin Raber, oncologo dell’ Anderson ed egli stesso paziente affetto da tumore. «Se sono in gamba e lavorano bene, avendo buone idee, noi li aiutiamo a trovare i fondi necessari a trasformare in realtà qualsiasi loro intuizione». Tuttavia, alla stregua di una versione moderna del sanatorio per la cura della tubercolosi della “Montagna incantata” di Thomas Mann, Anderson è un mondo nel quale perfino il top che la medicina può offrire si rivela spesso inadeguato. Le possibilità di farcela sono tuttora scoraggianti e se è vero che esistono ricoveri sereni, la lunga, deprimente ed estenuante strada che molti pazienti devono percorrere non può non balzare agli occhi. Mi riferisco a pazienti come la trentacinquenne Mindy Lanoux di San Antonio, affetta da un melanoma che si è esteso al fegato e ai polmoni, e che ha probabilità di farcela inferiori al 10 per cento. È stata ricoverata 16 volte in nove mesi e ogni volta ha dovuto affrontare terapie di una settimana talmente debilitanti da essere sempre sul punto di rinunciare. Invece ha continuato la cura, ungendosi di olio alla menta sotto il naso tutte le volte che varcava la soglia del centro oncologico, per mascherare l’ odore che avvertiva. «Quell’ odore mi entrava dentro… sapeva di prodotti per la pulizia, di malattia, di medicine.È un odore che poco alla volta ti pervade e ti taglia le gambe» dice Lanoux. Lei e suo padre si stanno avviando alla sua camera per iniziare a preparare i bagagli, essendo arrivato il momento di un’ altra dimissione. «Non scambiamo parola. Non si riesce a parlare tranquillamente. É come far parte di un esercito in combattimento». Con oltre 17.000 dipendenti e un dedalo di corridoi contrassegnati da colori diversi così vasto che perfino chi ci lavora si perde facilmente, il centro “M.D. Anderson” è un universo parallelo, nel quale niente ha importanza fuorché il cancro. I pazienti sono seduti nell’ ingresso, e si scambiano informazioni. June Toland, 71 anni, di Harlingen in Texas, è qui per un sarcoma, il tumore che colpisce il tessuto connettivo e dice: «Nelle sale d’ attesa tutti ripetono un’ unica domanda: “Come hai scoperto il tuo?”». Tutti i pazienti dell’ Anderson hanno il cancro. Ogni persona seduta qui nella hall o accanto al capezzale di qualcuno o accasciata in un letto di fortuna in una camera è un famigliare la cui vita è stata stravolta dal cancro. Cindy Davis, infermiera nel reparto tumori polmonari, lei stessa colpita dal tumore, confida: «Ogni tanto sembra quasi che il mondo intero abbia il cancro». Anderson è un luogo tranquillo. Nessun cercapersone squilla rumoroso. Le pareti sono abbellite da fotografie a vividi colori di paesaggi sereni, molto spesso paesaggi acquatici. Le tinte soffuse dei corridoi – mirtillo chiaro o verde pallido – sono studiate appositamente per infondere tranquillità. Esiste anche una camera speciale, “Kim’ s Place”, destinata ai giovani, a pazienti e loro amici di età compresa tra i 15 e i 30 anni; in pratica è un luogo di ritrovo e di aggregazione, con tanto di biblioteca e connessione internet. È un posto studiato per trasmettere speranza. Talvolta, come è accaduto a Frances Anderson di Shreveport, la speranza diventa realtà. Tre anni fa ha scoperto di avere un tumore cerebrale, ma quello scoperto era una metastasi, non era originato nel suo cervello. Capire dove si fosse sviluppato non è stato semplice: dopo essersi sentita dire in un altro centro che aveva dai quattro ai sette mesi di vita, Frances si è recata all’ ospedale Raber, uno dei pochi centri specializzati nel curare pazienti con forme tumorali diffuse in tutto il corpo e senza nessuna origine precisa. A 66 anni indossa jeans attillati, porta i capelli biondi accuratamente in piega, ha problemi di vista dovuti all’ intervento chirurgico che le ha rimosso il tumore cerebrale e si stanca facilmente. Ha ancora il cancro, ma fa ginnastica ogni giorno, convive con la propria malattia e torna all’ Anderson ogni sei mesi per sottoporsi a controlli e indagini. Altri pazienti non sono altrettanto fortunati. Una mattina del mese scorso Joe Maxwell era seduto su una sedia, accanto al suo letto d’ ospedale, con una benda che gli fasciava il braccio sinistro molto gonfio e del tutto inservibile, e un’ altra grossa bendatura sulla spalla sinistra. Stava per tornare a casa, a sedersi sotto il portico della sua casa di Kerrville in Texas, a quattro ore di macchina di distanza. Aveva provato tutto ciò che l’ Anderson poteva offrirgli per poi decidere che, restandogli poco più di due settimane di vita, la cosa che più desiderava era tornare a casa e morire lì. Maxwell era arrivato all’ Anderson a gennaio, dopo che il suo medico curante gli aveva diagnosticato in corrispondenza di un piccolo rigonfiamento un raro tumore alla spalla, il carcinoma delle cellule di Merkel e gli aveva detto: «Se ha un tumore raro deve andare dove i tumori non sono rari». All’ Anderson i medici hanno fatto per lui tutto quello che era possibile, interventi chirurgici, cicli e cicli di chemioterapia, una sperimentazione clinica di un nuovo farmaco, ma niente ha funzionato. Alla fine gli hanno proposto di cambiare medicine. «Abbiamo pregato tanto e parlato tantissimo di questo tumore. Alla fine ho deciso di andarmene a casa. Ero stanco. Mi hanno detto che mi restava poco da vivere e hanno concluso che se volevo andarmene, quello era il momento giusto». Andarsene, però, è stato altrettanto doloroso e difficile. I medici e le infermiere diventano «amici, parte della famiglia» dice la moglie Kathleen Maxwell, che poi aggiunge che l’ «Anderson è stato per nove mesi il mondo nel quale abbiamo vissuto». Joe Maxwell è morto 10 giorni dopo essere tornato a casa, nelle prime ore dell’ 8 ottobre. Comunque vadano le cose, la vita cambia per sempre, anche per coloro che arrivano alla fine delle terapie e si liberano del tumore. June Toland è qui e ha appreso questa lezione dal figlio, George Toland. Ventiquattro anni fa, quando aveva 21 anni, era lui un paziente dell’ Anderson, affetto da sarcoma. Un giorno il figlio la guardò negli occhie le disse: «La mia vita non sarà più la stessa». Lei cercò di rassicurarlo, dicendogli che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe tornato a una vita normale. Ma lui scosse la testa in segno di diniego, dicendo: «Mamma, si perde l’ innocenza». June Toland capì subito che il figlio aveva ragione e a sua volta rispose: «La maggior parte delle persone perde la propria innocenzaa piccole dosi,a manoa mano che passano gli anni e nel corso di tutta una vita. Tu l’ hai persa in una volta sola».
* L’ autrice è giornalista scientifica del New York Times e ha pubblicato diverse inchieste sulla lotta ai tumori Traduzione di Anna Bissanti copyright New York Times –
La Repubblica 07.11.09