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“Un paese senza futuro se rinuncia alla ricerca “, di Benedetto Vecchi

Parla Andrea Cammelli, presidente di «Alma Laurea». «Un contadino può essere colpito da carestia, siccità e essere costretto a rinunciare a molte cose, ma non a seminare». Andrea Cammelli è alla guida di «Alma Laurea», il consorzio interuniversitario che in questi anni ha compiuto molte ricerche sullo stato di salute dell’università italiana a partire dagli sbocchi occupazionali dei laureati dopo l’introduzione della riforma Zecchino-Berlinguer e l’avvio del processo di Lisbona che doveva portare i paesi del vecchio continente a investire nella produzione di conoscenza e adeguare l’organizzazione sociale e produttiva europea alla competizione internazionale. Con pragmatismo, invita a guardare alla realtà universitaria del nostro paese come a una realtà che ha scelto la strada dell’innovazione e della modernizzazione. Allo stesso tempo, ribadisce che nessuna riforma, anche la più organica, la più ambiziosa, può essere compiuta senza adeguati investimenti. E se gli viene ricordato che i rapporti di «Alma Laurea» descrivono un paese che non sa che farsene della conoscenza scientifica, ribadisce che l’università e le imprese hanno smesso di essere delle torri d’avorio impermeabili a quanto accade nella società. E se gli atenei devono cambiare, deve trasformarsi anche la realtà produttiva del nostro paese, perché non è possibile «che una giovane laureata, con un master di specializzazione, uno stage in azienda e cinque anni di altra specializzazione in Giappone finisca a fare la receptionist in un piccolo albergo di Ostuni, mandando così al macero anni e anni di studio».
I rapporti di «Alma Laurea» parlano di una università in affanno e che non riesce a stare dietro a quanto accade negli altri paesi europei….
L’università italiana è una realtà più articolata rispetto a quanto emerge dalla sua domanda. Se lei si riferisce al numero di abbandoni universitari, concordo con chi sostiene che l’università italiana è in difficoltà nel garantire il completamento dei percorsi formativi, anche se dopo la riforma chiamata del 3+2 sono diminuiti. Se ci riferiamo alla qualità del sapere trasmesso o alla qualità della formazione universitaria posso ribadire quanto emerso dalle nostre ricerche.
In primo luogo, dagli oltre 190mila curricula che abbiamo coinvolto nelle ricerche emerge che chi frequenta l’università italiana lo fa con più regolarità rispetto al passato e arriva alla laurea rispettando i tempi previsti. Inoltre, e questo è un dato per noi significativo, sono molti i giovani che frequentano stage di lavoro e tirocinii, considerando positive queste esperienze che preparano l’ingresso nel mercato del lavoro. C’è però un elemento critico che abbiamo riscontrato. Negli anni scorsi sono stati molti gli studenti che accedevano al programma di mobilità Erasmus, consentendo così di conoscere realtà molto diverse da quelle italiane. Si è trattato di una sprovincializzazione dei percorsi universitari italiani che però ha avuto una battuta di arresto nell’ultimo biennio.
C’è un altro dato che vorrei ricordare: sono sempre più i giovani che si laureano, ma poi continuano gli studi, magari accedendo a altri corsi di laurea. È amore per la ricerca o difficoltà di entrare nel mercato del lavoro? Come «Alma Laurea» abbiamo incrociato i dati tra il luogo di residenza dei giovani e il proseguimento degli studi. Abbiamo avuto la conferma che la maggioranza dei giovani che proseguono gli studi sono quelli residenti nel meridione, dove la dinamica del mercato del lavoro o è molto bassa o inesistente. Dico questo non per nascondere le difficoltà dell’università italiana, ma per sottolineare che il mercato del lavoro non garantisce un ingresso adeguato a chi ha conseguito una formazione universitaria.
Lei è un pragmatico, ma non può però negare che dal 2004 in poi è emerso il fatto, grazie alle mobilitazioni dei ricercatori precari, che l’università italiana era piena di ricercatori, assegnisti, docenti precari che, lo hanno sostenuto in molti, hanno evitato il suo collasso. Lo scorso anno, gli studenti dell’Onda hanno svelato il fatto che l’ulteriore riduzione dei finanziamenti pubblici all’università li privava del presente e del futuro. Dunque una situazione che rosea proprio non è: non crede?
Non nego questi elementi di seria difficoltà, né chiudo gli occhi di fronte al rischio che intere generazioni di laureati decidano di andare a fare ricerca all’estero. Se il mercato del lavoro non riesce ad assorbire adeguatamente un giovane con laurea specialistica, un master, esperienza di stage o con esperienze di ricerca all’estero è un dato che desta preoccupazione, così come preoccupa l’assenza di adeguate risorse economiche per la ricerca di base e applicata. Riuscirà la riforma presentata dal ministro Gelmini a risolvere questa situazione? Non sono abituato a immaginare il futuro guardando una sfera di cristallo. Dico semplicemente che un paese non può pensare di riformare radicalmente l’università senza investire su di essa. La proposta di riforma presentata nei giorni scorsi appare invece come una riforma a costo zero. Poco e nulla è stato infatti detto sui mezzi per attuarla. Se poi mettiamo a confronto i finanziamenti per la ricerca e all’università previsti dalla Germania con quelli francesi o tedeschi scopriamo che per ogni euro che viene investito in Italia, ce ne sono due a Parigi e quasi tre a Berlino. L’Italia, è noto, spende lo 0,78 per cento del prodotto interno lordo per l’università, percentuale quasi triplicata in Germania e raddoppiata in Francia. Ma se vediamo i dati assoluti, il divario è ancora maggiore, perché il pil francese o quello tedesco sono di gran lunga superiori a quello italiano.
Rispetto al cosiddetto processo di Lisbona, l’Italia ha fatto ben poco per adeguare il «sistema della formazione» a quanto deciso dall’Unione europea. Bruxelles o Strasburgo possono tranquillamente dirci che siamo rimasti al palo. Gli ultimi governi hanno sostenuto: che non c’erano i soldi perché i conti pubblici erano fuori controllo; che la crisi economica dell’ultimo anno e mezzo hanno quasi messo in ginocchio l’Italia. Le chiedo: ma che paese è quello che decide di non investire nel futuro e che ritiene di adeguarsi alle miserie del presente?
Lei dice investire sul futuro: è quello che dovremmo fare, ma questa scelta è assente dal panorama politico. Non nego che la crisi abbia travolto come un ciclone il nostro paese, ma non possiamo non investire sull’università, che è una risorsa strategica per il nostro futuro. Ripeto: in Europa sono molti i paesi che puntano sull’Università. Inoltre, vale la pena ricordare che anche Barack Obama ha indicato nella scuola e nell’università una delle priorità della sua amministrazione. La situazione italiana va in direzione contraria. Posso dire che concordo con quanto ha detto il nostro presidente della Repubblica: che un paese che non investe nella ricerca e nell’università è destinato a svolgere un ruolo ancillare nella realtà internazionale. Cito un altro dato emerso dalle nostre ricerche: il numero dei laureati italiani è poco meno della metà degli altri paesi dell’Ocse. L’Italia eredita dal passato una realtà fatta da poca scolarizzazione di base e formazione superiore. Ma non possiamo andare avanti secondo la regola che si investe, poco, quando è un periodo di vacche grasse e si taglia drasticamente quando si è in difficoltà.
Faccio il malizioso: lei descrive un governo che accetta l’impoverimento economico, sociale e culturale del paese…
Guardi che non riguarda solo il presente, è una tendenza che ha radici lontane. Io registro solo il fatto che durante le campagne elettorali tutti dicono che vogliono modernizzare e investire nella ricerca e nell’università. Poi si chiudono le urne e torniamo a guardare sconsolati i grafici che attestano come in venti anni ci sia stata una contrazione del 42 per cento degli investimenti destinati all’università, alla ricerca, cioè alla speranza di rendere migliore il nostro paese.
Il Manifesto 08.11.09

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