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Perchè le regole sono la democrazia

Articoli di Carlo Galli, Filippo Ceccarelli e Nadia Urbinati, e una definizione di “democrazia” di Norberto Bobbio
“Perché le regole sono la democrazia” di Carlo Galli
Un triste destino ha colpito le due categorie centrali della metafisica occidentale, sostanza e forma. Dal loro significato originario – elaborato da Platone e Aristotele – , che indicava rispettivamente il fondamento di tutto ciò che è, e gli schemi razionali del suo configurarsi, sono giunte a essere sinonimo, nell´attuale discorso pubblico italiano, di “contenuto reale” e di “apparenza superficiale”. Un impoverimento che ha anche un forte valore polemico, e che riprende, semplificandola e distorcendola, una dialettica autentica che si è storicamente manifestata – con altri nomi e altri concetti – all´interno della teoria politica. Infatti, la politica non si esaurisce certo nelle forme giuridiche, nella norma, nella procedura, nelle istituzioni. E soprattutto la democrazia è anche sostanza: implica infatti, alla radice, la pienezza del popolo, la sua presenza sulla scena politica come identità, come fonte della sovranità, come origine e fondamento del potere.

C´è, nella teoria democratica moderna l´esigenza che il popolo sia una unità politica originaria, immanente, autonoma e autosufficiente, che precede ogni forma istituzionale e giuridica: questa democrazia sostanziale si presenta come potenza della moltitudine in Spinoza, come rinnovamento morale dell´uomo e della società in Rousseau, come emergere di una forte conflittualità in Sorel, e come radicale avversione per le istituzioni nel marxismo rivoluzionario: in questi casi, pur così lontani tra di loro, la forza del popolo non conosce se non quei limiti e quelle forme che pone da sé, in via provvisoria e transitoria, sempre pronta superarli, a travolgerli. Il popolo, qui, è potere costituente, energia che non si neutralizza mai del tutto; è legittimità, sempre in grado di forzare la legalità; è un Bene che si impone assolutamente, un Valore che si afferma, con una voce corale e collettiva.

Questo modo sostanziale e radicale di pensare la democrazia è in concorrenza per tutto il corso della modernità – e nel XX secolo alimentò il confronto fra due giuristi come Schmitt e Kelsen – con la democrazia liberale e costituzionale, che differisce dalla prima su due punti. Innanzi tutto, è intrinsecamente limitata, poiché valuta come Bene fondamentale i diritti dei singoli, in regime di uguaglianza; e al fine di salvarli e promuoverli incanala il potere entro le forme e le procedure delle istituzioni repubblicane. Inoltre, questa democrazia riconosce sì al popolo la titolarità originaria della sovranità, ma non gliene consente l´esercizio diretto. La democrazia liberale è quindi rappresentativa, non identitaria, e prevede che la voce del popolo si articoli in una pluralità di opinioni, all´interno di un´istituzione che nel dialogo trova la propria ragion d´essere: il parlamento – contro il quale si rivolgono le polemiche di Rousseau, di Sorel, di Marx e di Lenin – . In questa democrazia il potere del popolo, la sostanza, non si dà senza la forma, e soprattutto non può mai trascenderla. Il che significa che la legittimità deve farsi legalità, che il potere costituente non può non istituzionalizzarsi in potere costituito. Non esiste alcun potere assoluto, neppure quello del popolo – meno che mai quello dei suoi rappresentanti, o del governo – .

Il liberalismo seicentesco di Locke e quello ottocentesco di Mill, oltre alla tradizione del costituzionalismo inglese e nord-americano, stanno alla base di questa accezione della democrazia, che ispira anche le costituzioni contemporanee. Ma non è una democrazia inerte, apatica e relativistica, non persegue la piena giuridificazione tecnica, formalistica e procedurale della politica, non esclude passioni e sentimenti, valori e speranze; vive anzi della dialettica tra le dimensioni del diritto e del potere, tra forma e sostanza, fra legalità e legittimità. E nel nostro tempo la sostanza della democrazia, del potere del popolo, sono i valori dell´umanesimo laico e cristiano, liberale e socialista, incorporati nella Costituzione. Sono lo sforzo all´inclusione, alla partecipazione (anche in senso elettorale), all´uguaglianza reale. Sono gli interessi legittimi e i loro conflitti, la dignità del lavoro e delle professioni, le fatiche e le speranze dei cittadini. Ma tutto ciò può valere e essere difeso nelle forme del diritto, che sono ormai pienamente democratiche.
La contrapposizione tra sostanza e forma, infatti, è stata risolta in quell´autentico caso d´eccezione che fu l´instaurazione dell´attuale ordinamento giuridico-politico, fra il 1943 e il 1948; lì c´è stata la decisione sovrana del popolo, che ha affermato come legittimo il proprio potere e gli ha dato la forma costituzionale attuale. Quindi mettere oggi in contrapposizione forma e sostanza – come se la prima fosse nulla, senza capire che è invece il modo d´essere della sostanza – è usare il caso d´eccezione non per creare ma per distruggere: nessuna sostanza politica, oggi, può affermarsi contro la forma costituzionale, o fuori di essa; neppure il diritto di voto può essere contrapposto all´ordinamento (come si è tentato di fare, poiché non si sono volute perseguire altre vie). La democrazia della sostanza, oggi, è una democrazia informe e illegale; non potere del popolo ma conato di populismo; non ordine, ma la solita emergenza quotidiana.

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“Un regime privatizzato” di Filippo Ceccarelli

Residenze private fatte pubbliche, da villa La Certosa a Palazzo Grazioli, con tanto di tricolore al balcone e seratine «simpatiche»come dice il premier. Picchetto d´onore a Palazzo Chigi per accogliere il socio d´affari, principe Al Walid. Istituzionalizzazione di casa Letta, del salotto Angiolillo e dello studio di Bruno Vespa per la firma del Contratto con gli italiani e la sua verifica annuale, sulla medesima scrivania in ciliegio.
Cosa è più, ormai, la distinzione tra forma e sostanza in tarda epoca berlusconiana? I miscugli di cui sopra si riferiscono al quinquennio 2001-2006, due legislature orsono. Per dirne l´evoluzione o regressione che sia, per far capire quanto poco al Cavaliere stia a cuore di salvare la forma, appunto, oltre che la sostanza, basterà qui far presente che dopo aver presentato il suo quarto governo alle Camere, nel maggio del 2008, non è più intervenuto né a Montecitorio né a Palazzo Madama.

Del resto lì ha messo gente anch´essa molto poco portata a soffermarsi sulle antiche distinzioni, tanto formali quanto sostanziali, che regolano i rapporti fra le istituzioni. Uno di questi testimonial del berlusconismo trans-istituzionale, anche lui segnalatosi per un´impegnativa e temeraria valutazione su forma e sostanza, è il presidente del Senato Schifani, a suo tempo (2002) innalzato dal suo ex compagno di partito Filippo Mancuso a «Principe del foro del recupero crediti».

Mancuso era quell´ex alto magistrato piccoletto, già Guardasigilli ribellatosi al governo Dini, che parlava una strana lingua aulica e assai espressiva, ma il senso giuridico della separazione senza dubbio lo possedeva. La sua turbinosa uscita da Forza Italia, dove era stato accolto come una sorta di coscienza della continuità, segna un punto di non ritorno nel processo di alterazione della norma e delle regole e quindi dei comportamenti. Con il che lo stesso giorno in cui Schifani ascese alla terza carica dello Stato pensò bene di andare a ringraziare a Palazzo Grazioli.

Fossero solo le liste elettorali, infatti, i decreti legge interpretativi o le pantomime in Consiglio dei Ministri quando c´è da legiferare sulla televisione e allora Berlusconi e Letta si alzano e fanno finta di astenersi. Tutto questo non dipende da innata cattiveria o conveniente ipocrisia. Solo quel tanto che attiene alla natura umana. È che per sua natura e vocazione, la monarchia carismatica, aziendale, populista e spettacolare appare del tutto incompatibile con la complessità degli assetti giuridici; né mai riuscirà a comprendere i vincoli posti da tradizioni lontanissime dalle logiche del potere personale, del mercato e dello show-business.

A proposito del suo governo ha detto il presidente Berlusconi nell´autunno del 2008: «Per la prima volta ne ho uno che fila come un orologio, sembra un consiglio d´amministrazione». Che l´ingranaggio si sia con il tempo un po´ rallentato non toglie nulla a un paradigma, a un modello, a una condizione del tutto inedita secondo cui il Cavaliere tiene moltissimo sia alla forma che alla sostanza: ma a patto che sia lui non solo a ridefinirne i confini, ma a stabilire cosa siano l´una e l´altra.

E poiché tale processo, che poi coincide con la definitiva presa del potere, non si è ancora compiuto, ecco che tra commistioni, contaminazioni, superamenti, scavalcamenti e altre poco simpatiche forzature, dal continuo miscuglione di forma & sostanza ha finito per generarsi una specie di “formanza”. Mostruosa ibridazione, enigmatico incrocio che in fondo ha già cominciato a mettere a dura prova politici, giuristi, filosofi, sociologi e addirittura giornalisti rotti a qualsiasi invecchiatissima novità.

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“Il potere alla prova” di Nadia Urbinati

“The law is the law is the law” – a molti nostri connazionali questa massima deve apparire come un´insopportabile tirannia del formalismo. Forse si sentono piú a loro agio con quest´altra formula: “estado de opinión”, usata nei regimi demo-autoritari sudamericani per sottolineare il contrasto con lo “estado de derecho”, la tensione tra il governo dell´opinione di chi governa e il governo della legge. Forma e sostanza non sono due opposte dimensioni della democrazia perché senza procedure che limitano l´azione politica non c´è sostanza democratica in quanto a contare non sarà l´opinione generale ma un´opinione di parte, non importa quanto grande. In altre parole, violare le norme che mettono in pratica il principio di eguaglianza si traduce in una violazione della sostanza democratica che è appunto l´eguaglianza. Ecco perché mentre la legge è sempre al nostro servizio, l´opinione di chi governa non lo è necessariamente. Questo vale soprattutto quando si ha a che fare con un diritto politico fondamentale come quello elettorale.
Perciò, in casi estremi, quando ci sono dubbi o evidenti scorrettezze è al potere giudiziario che la democrazia si rivolge (un potere che, vale ricordarlo, è anch´esso democratico). Perché è possibile che nell´espletamento del diritto elettorale si verifichino negligenze ed errori. Ad essere rivelatore della solidità democratica è in questo caso il comportamento della classe politica. Nelle contestatissime elezioni americane del 2000, quando per risolvere la diatriba sul conteggio dei voti in Florida intervenne la Corte Suprema, Al Gore, il candidato che risultò perdente (benché forse i voti gli avevano dato la vittoria) non si sognò neppure di attaccare i giudici e gridare che è la sostanza politica a fare la democrazia. Nel caso da noi in discussione in questi giorni, invece, si assiste a questo ribaltamento delle parti: se l´esclusione di una lista elettorale avviene perché qualcuno non ha rispettato le regole, allora si invoca la sostanza contro la forma e si dice che l´esclusione è stata provocata dalla legge, non dal suo mancato rispetto. Qui l´intervento della giustizia è dichiarato un attentato alla democrazia. L´esito politico di questo ragionamento assurdo è inquietante.
Il paradosso è il seguente: fino a quando esiste un accordo tra l´opinione politica e la legge allora vale la massima “the law is the law is the law”. Quando invece c´è disaccordo tra opinione e legge ad avere la precedenza è la sostanza che consiste appunto nella preferenza di una parte – la massima diventa allora “estado de opinión” contro “estado de derecho”. Il fatto è che, siccome a decretare l´una o l´altra soluzione è comunque la preferenza politica, anche quando pare che a vincere sia la legge in realtà a vincere è sempre l´opinione. Ecco perché le interruzioni della regola nel nome della sostanza sono ben più di un incidente di percorso o di una soluzione di emergenza per sanare una situazione eccezionale. Esse si traducono in una vera e propria sostituzione dello “estado de opinión” allo “estado de derecho”. E questo puó scardinare la democrazia.
Ma allora, perché alcuni stati democratici sono piú inclini di altri a rispettare le regole che si sono dati? La spiegazione non è univoca perché la domanda mette in campo dimensioni diverse, come quella legale e quella etico-culturale; tuttavia è possibile formulare questa massima generale: perché una società democratica resista nel tempo è fondamentale non solo che abbia buone leggi ma anche che il suo personale politico sia disposto ad autolimitarsi per rispettarle.

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“Sillabario: Democrazia” di Norberto Bobbio

Per regime democratico s´intende primariamente un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive, in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia possibile degli interessati. So bene che una simile definizione procedurale, o formale, o in senso peggiorativo formalistica, appare troppo povera ai movimenti che si proclamano di sinistra. Ma, a parte il fatto che un´altra definizione altrettanto chiara non esiste, questa è l´unica che ci offra un criterio infallibile per distinguere tra due tipi ideali opposti di forme di governo. Altrettanto opportuno è precisare che la democrazia come metodo è, sì, aperta a tutti i possibili contenuti, ma è nello stesso tempo molto esigente nel richiedere il rispetto delle istituzioni, perché proprio in questo rispetto sono riposti tutti i vantaggi del metodo.

da La Repubblica 11.03.10

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