partito democratico, politica italiana

«Per noi la strada è ancora in salita. Non nascondiamo la polvere sotto il tappeto», di Marina Sereni

Non è il risultato che speravamo. Credo che si debba partire da qui, fare un’analisi onesta e rigorosa dei dati che questo voto ci consegna. Non voglio sminuire la conferma al centrosinistra di sette delle tredici regioni che hanno svolto le elezioni, né l’affermazione significativa di alcuni nostri candidati. Ma non saremmo in sintonia con i nostri elettori se non vedessimo alcuni problemi seri.

Primo: l’astensionismo è stato particolarmente ampio ma, al contrario di quanto molti si aspettavano, non ha penalizzato in maniera più evidente il centrodestra. E’ un segnale di disaffezione verso la politica e di insoddisfazione verso la qualità dell’offerta politica di entrambi gli schieramenti. Ma, nel centrodestra, la campagna personale di Berlusconi da un lato e il successo straordinario della Lega dall’altro sono riusciti a mobilitare l’elettorato più militante, mentre non ci sono stati fenomeni altrettanto forti nel nostro campo. Insomma non possiamo dire che questo voto è – come noi pensavamo potesse essere – una bocciatura dell’azione di governo. Questo vuol forse dire che l’azione del governo contro la crisi sia stata apprezzata dai lavoratori, dai piccoli imprenditori, dalle famiglie? Probabilmente no, ma il dato rilevante è che la nostra critica (sacrosanta) non è stata sufficiente e che non siamo stati in grado di indicare delle risposte alternative convincenti per le fasce sociali più colpite dalla crisi economica.

Secondo: la sconfitta in Piemonte (come nel Lazio per una manciata di voti) con l’elezione del leghista Cota contro la Presidente uscente, insieme ai dati del Veneto e della Lombardia, enfatizza una difficoltà del Pd e del centrosinistra molto forte al Nord. Come affrontiamo una riflessione sulla nostra presenza e le nostre proposte per le aree più sviluppate e dinamiche del Paese? Nessuno ha delle risposte certe ma non si può eludere un approfondimento. D’altra parte il trionfo della Lega, che continua la sua infiltrazione nel Centro ( mi aspetto che gli studiosi di flussi tra qualche ora ci diranno che è il voto di ex elettori della sinistra che si rivolge al Carroccio), cambia gli equilibri nel centrodestra e certamente produrrà un quadro nuovo in Parlamento su temi rilevanti come il federalismo e le riforme istituzionali.

Terzo: si è molto teorizzato sull’idea che le elezioni regionali potessero essere un laboratorio per una nuova alleanza di centrosinistra da proporre alle prossime elezioni politiche. L’incontro con l’Udc ha funzionato in Liguria e nelle Marche, ma non in Piemonte e i risultati del partito di Casini, dove si è alleato con noi, non sono esaltanti. Con la sinistra radicale ci sono state alleanze e rotture e il peso elettorale di quest’area su scala nazionale è oggi difficilmente misurabilie. Insomma, chi coltivava l’illusione della formula magica credo sia stato smentito dai fatti.

Non si può immaginare una “ripartenza” del Pd e del centrosinistra a partire dalle alchimie delle alleanze se non abbiamo chiaro il progetto per il quale ci candidiamo a governare l’Italia. Gli italiani forse non sono più entusiasti di Berlusconi, ma se non vedono una proposta, una visione diversa delle forze progressiste e riformatrici comprensibile e convincente non si profila per noi una facile vittoria.

Quarto: il voto alle liste “cinquestelle” di Beppe Grillo assume in alcune realtà, come in Piemonte e in Emilia Romagna, una dimensione non insignificante. E’ un voto di protesta, urbano e forse giovane, che prende la strada dell’antipolitica. Il fatto che non ci piaccia non ci autorizza ad ignorare che molti di quegli elettori in un’altra fase si sarebbero rivolti all’opposizione.

Quinto e ultimo punto: il Pd ottiene su scala nazionale un risultato simile a quello delle elezioni europee. E’ difficile confrontare precisamente i dati dei partiti essendoci in molte regioni delle liste “dei presidenti” spesso sovrapponibili ai principali partiti delle coalizioni. Tuttavia non si può non vedere che non c’è un trend esaltante. Forse qualcuno dirà che dobbiamo abbandonare il progetto e rassegnarci a rimanere un partito di medie dimensioni che per vincere deve costruire un’alleanza larga. Personalmente credo invece che questo risultato debba spingerci a rilanciare il progetto del Pd, a riaprire il cantiere, ad interloquire con altre forze progressiste, a impegnare le nostre risorse in uno sforzo culturale, politico, organizzativo che in realtà non abbiamo mai saputo o potuto fare.

Abbiamo davanti alcuni anni senza scadenze elettorali: possiamo provare ad occuparli misurandoci sulle riforme che proponiamo per questo Paese? Come si combatte la precarietà, come si governa l’immigrazione, come si modernizza il sistema pubblico, come si cambia il rapporto tra il fisco, le famiglie e le imprese, come si mettono al primo posto i giovani, come si premia il merito e si costruisce la giustizia sociale, con quali istituzioni e quali partiti si avvicina la politica ai cittadini. Se non affrontiamo questi nodi ora, dopo questo voto, e nascondiamo la polvere sotto il tappeto temo rischiamo di non corrispondere alle aspettative di tanti che ci hanno votato e di tanti altri che ancora ci guardano da lontano e non sanno se fidarsi o no…
da www.marinasereni.it

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«Il Pd nel vicolo cieco», di Luigi La Spina

Con un gioco di parole, banale ma efficace, si potrebbe dire che ha colpito, nei risultati del voto per le elezioni regionali, la voglia di protesta degli italiani. Ma il sentimento più vero e importante emerso dal verdetto è un altro: la voglia di proposta. La domanda, anzi, la giusta pretesa degli elettori di essere governati. E governati bene.

La democrazia è fatta di numeri e di sintesi.

Non si possono confondere, perciò, le dimensioni quantitative dei fenomeni, mettendo sullo stesso piano realtà con cifre assolutamente distanti tra loro. Né trascurare la crudele ma imparziale legge che assegna una vittoria senza ombre anche a chi prevale per un voto e una sconfitta senza giustificazioni a chi, per un voto, soccombe.

E’ vero che l’astensione è stata senza precedenti nel nostro Paese e interpretarla come una disaffezione, un’accusa, anche una protesta dei cittadini contro la classe politica è certamente un’interpretazione corretta. Ma non bisogna dimenticare che, dopo una campagna elettorale deprimente e lontana dagli interessi concreti degli elettori, una ancora ampia maggioranza degli italiani è andata a votare per un ente, la Regione, che non è in cima nella graduatoria di affezione popolare. Un fenomeno, quindi, del tutto fisiologico, non drammatico nei numeri e, molto probabilmente, reversibile in votazioni politiche e amministrative più sentite. Altrettanto fisiologica e assolutamente minoritaria è la presenza di un’opposizione irriducibile e contestativa contro il generale nostro sistema dei partiti che, di volta in volta, sceglie l’estremismo movimentista, a targhe alterne, dal «girotondismo» al «grillismo».

Considerate le dimensioni numeriche della protesta che si è manifestata in Italia, è forse più opportuno concentrare l’attenzione sulle intenzioni espresse da coloro che sono andati a votare per i partiti che si contendevano la posta in palio e che, cambiando le loro scelte, hanno connotato il significato dell’elezione. La sintesi è semplice e chiara: la Lega è l’unica vera vincitrice del round elettorale perché ha dimostrato, in questi ultimi anni, di non essere più un movimento di protesta, ma di offrire una vera alternativa di governo, almeno di quello locale e regionale. Il Pdl ha visto ridotto il suo bacino di consensi, nonostante le straordinarie capacità di seduzione elettorale di Berlusconi, perché una parte dei suoi simpatizzanti non è soddisfatta dei risultati del governo in questo inizio di legislatura. Il Pd non può nascondere, dietro la tenuta dei suffragi, l’amara verità: ancora una volta non ha dimostrato di sapere offrire agli italiani una concreta alternativa nazionale di governo all’asse politico, sociale, culturale rappresentato dalla coppia Berlusconi-Bossi.

Le giustificazioni, come l’addebito alla lista di Grillo per la sconfitta della Bresso in Piemonte e le eccezioni, come la vittoria a Venezia di Giorgio Orsoni contro il ministro Brunetta, non possono mascherare la constatazione che il progetto politico del partito democratico è finito in un vicolo cieco: non si può pretendere di offrire agli italiani una proposta di vera alternativa nazionale di governo, se non si riesce a convincere almeno una parte delle grandi regioni del Nord. Se si subisce, nel Lazio, la candidatura della radicale Bonino e non la si porta alla vittoria in una competizione che, per le note vicende, non sembrava impossibile. Se, in Puglia, si perdono le primarie contro il candidato di un altro partito e, poi, si contribuisce a farlo vincere solo per una masochistica e clamorosa divisione del fronte avversario. In queste condizioni, alzare la bandiera della Liguria e della Basilicata, in aggiunta ai tradizionali feudi del centro Italia, per non ammettere la sconfitta è un esercizio di acrobazia dialettica che non può essere concesso neanche a una persona perbene e simpatica come Bersani.

La richiesta di essere governati degli italiani andrà raccolta, perciò, da tre fronti: dalla Lega, che non dovrà deludere quelle attese di serietà, concretezza e moderato buon senso che l’hanno premiata; da Berlusconi, che non dovrà sottovalutare, per il sollievo dello scampato pericolo di una sconfitta, i segni di stanchezza e sconcerto di una parte del suo elettorato; infine, dal Pd al quale, forse, spetta il compito più difficile ma anche più importante per conservare l’equilibrio di una sana democrazia: offrire una vera alternativa di governo all’attuale maggioranza.

È inutile, a questo proposito, che il partito democratico continui a cercare la soluzione cambiando il segretario. Ma è inutile pensare che senza un vero chiarimento possa uscire dalla sua condizione di un partito senza identità, con una classe dirigente invecchiata in un asfissiante logoramento di lotte intestine. Le strade sono solo due. La prima porta il Pd a rappresentare la parte maggiore dell’opposizione nel nostro Paese, con vittorie occasionali e provvisorie, frutto di errori clamorosi degli avversari. La seconda ha l’ambizione di convincere una parte dell’elettorato di Berlusconi e Bossi che l’Italia si può governare in un altro modo.

da www.lastampa.it