economia, lavoro

"Il futuro perduto di giovani e imprese", di Giuseppe Turani

Anche l´Italia ha la sua generazione perduta. Solo che non vanno a Parigi a scrivere grandi romanzi (come Henry Miller o Scott Fitzgerald), ma più modestamente vanno al bar a giocare a biliardo o a passeggiare ai giardinetti (quando non si fanno di coca). Si tratta del 7-8 per cento (la quantificazione esatta spetta ai sociologi) di giovani che oggi hanno meno di 35 anni.
Con le prospettive di crescita dell´economia italiana, questi ragazzi, che non hanno un lavoro, hanno la quasi certezza di non trovare mai un lavoro, né adesso né fra dieci anni o venti anni. Sotto di loro c´è quella che alcuni chiamano la generazione «né-né» (un po´ meno di un milione) che non fa assolutamente niente, per scelta: non studia e non lavora.
Ma torniamo alla generazione perduta. Che rappresenta uno spreco totale e un problema sociale di cui l´Italia dovrebbe un po´ vergognarsi. In gran parte si tratta di giovani (anche del Nord) che hanno studiato, che sanno qualche lingua e che avrebbero voglia di fare qualcosa e che potrebbero quindi dare un contributo prezioso al paese.
Ma sono nati nel momento sbagliato. Sono diventati adulti in un momento di riflusso economico e senza protezioni sociali o santi in paradiso. Il loro destino, quindi, è quello di essere inattivi, per sempre.
Potranno tirare avanti grazie a un appartamento del nonno e a qualche libretto di risparmio di una zia senza eredi. I più fortunati potranno arraffare qualche lavoretto precario per un mese o due. Ma niente intorno a cui costruire una vita, una famiglia, un destino.
Ma questo nulla, questa specie di deserto bianco in mezzo a una società affluente, colpisce anche quelli più anziani. Se si va nel Nord Est (ricco, purtroppo, di giovani della generazione perduta, spalla a spalla con quelli che ancora girano con la Porsche e la Mercedes di papà) si vede che sta accadendo qualcosa di inedito nel mondo industriale. Le aziende più consistenti, se sono riuscite a diventare «terzisti» (fornitori) di un grande gruppo multinazionale stanno guadagnando moltissimi soldi e vanno bene (fino a quando «quelli là» non decideranno di cambiare fornitore).
Le filiali delle grandi multinazionali chiudono tutte come mosche e si trasferiscono in paradisi in cui la gente non costa niente e non chiede diritti.
Dietro queste multinazionali che se ne vanno resta appunto il deserto bianco. Spesso una mano d´opera di mezza età non più collocabile e che quindi finisce anch´essa dentro il contenitore della generazione perduta.
Poi ci sono le piccole aziende. Molte di loro, semplicemente, chiudono i battenti. I vecchi proprietari non se la sentono più di andare avanti e di perdere soldi o di fare debiti. Fin qui è andata bene, ma ormai contro coreani, tailandesi, ecc., è inutile battersi. Meglio tirare una riga, mandare tutti a casa e arrivederci. E, di nuovo, abbiamo centinaia di lavoratori di mezza età che finiscono nel deserto bianco dove non arriverà mai più un lavoro o un´occupazione.
In sostanza, al di là dei modestissimi dati economici generali (1 per cento di crescita per dieci anni, se va bene), quello che sta avvenendo in Italia è una certa distruzione della sua base industriale (quella dei piccoli, ma essenziale). Ma, soprattutto, è in atto una degradazione del tessuto sociale che non ha precedenti nella nostra storia.
Migliaia di persone che di fatto vengono private di qualsiasi futuro operoso e intelligente e costrette a giocare a biliardo o a fare le parole crociate per i prossimi trent´anni. E fra questi anche giovani che hanno studiato o gente che ha comunque una specializzazione professionale.
Non so dire se da questo nasceranno rivolte sociali imponenti o svolte politiche epocali. So solo che stiamo diventando (mentre la politica si occupa d´altro) un paese che a migliaia dei propri cittadini sa offrire solo una cosa: il niente.

La Repubblica 26.09.10