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"Chi paga il prezzo dei tagli all'istruzione", di Tito Boeri

In tutti i paesi avanzati è stato il lavoro poco qualificato a pagare il conto più salato nella Grande Recessione. Negli Stati Uniti un quarto dei lavoratori con meno di 12 anni di istruzione ha perso il lavoro tra il 2007 e il 2009. A chi aveva studiato anche solo quattro anni in più è andata molto meglio: “solo” uno su dieci ha vissuto il trauma della perdita del lavoro. Nell’area dell’euro il tasso di disoccupazione tra chi ha al massimo completato la scuola dell’obbligo è aumentato di più di quattro punti percentuali in due anni

Quello dei laureati è rimasto quasi invariato. Oggi la probabilità di essere disoccupato tra chi ha una laurea è un terzo di quella di chi ha solo un diploma di scuola secondaria inferiore. Prima della crisi il rapporto era di uno a due.
Le cose in Italia non sono molto diverse: l´unica differenza è che da noi molte persone con basso livello di istruzione rimangono ai margini del mercato del lavoro. I divari nei tassi di occupazione tra laureati e diplomati sono attorno al quaranta per cento, come negli altri paesi, e sono cresciuti durante la recessione. L´istruzione è diventata ancora più di prima la migliore assicurazione sociale di cui un giovane oggi può dotarsi per evitare un futuro difficile, fatto di disoccupazione e bassi salari.
I lavoratori poco qualificati dei paesi avanzati sono sempre più l´anello debole della crescita mondiale, schiacciati fra i lavoratori poco istruiti dei paesi emergenti e i lavoratori qualificati dei paesi avanzati. Nel Nord del mondo le imprese che, al di fuori dei servizi, sono cresciute di più sono quelle con un´elevata proporzione di lavoratori qualificati, che hanno saputo innovare producendo beni sempre più tecnologicamente avanzati, al riparo della concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Oggi ci sono scarpe per il jogging in grado di misurare il numero dei battiti cardiaci. Non sarà facile imitarle con scarpe made in Taiwan.
Il nostro esecutivo in questi due anni e mezzo ha tagliato solo un capitolo della spesa pubblica: le risorse per l´istruzione. Nel 2008-2009 sono calate, secondo l´Istat, del 2 per cento, mentre il resto della spesa pubblica aumentava, al netto dell´inflazione, di più del 3 per cento. In termini relativi, la spesa in istruzione è dunque calata del 5 per cento.
Secondo le previsioni della Ragioneria dello Stato, le cose sono destinate ad andare ancora peggio nel 2010. La spesa per la scuola dovrebbe diminuire di circa un punto e mezzo e quella per l´università addirittura del 9 per cento in termini reali. La spesa per l´istruzione sarebbe destinata a perdere un altro mezzo punto percentuale sulla spesa totale, a vantaggio delle pensioni. È significativo che nella crisi siano aumentate in termini relativi le risorse per la previdenza – che si basano su di un trasferimento dai giovani a chi è al termine della carriera lavorativa e non può più essere colpito dalla piaga della disoccupazione – mentre sono calate quelle per l´istruzione – una istituzione che ridistribuisce in senso contrario, guardando al futuro professionale delle nuove generazioni.
È una scelta di bilancio che non ha alcuna giustificazione economica di fronte alla stagnazione del nostro Paese. Si spiega unicamente con lo scarso peso politico delle nuove generazioni. Rischiamo di pagarla molto cara, la classica zappa sui piedi.
I mancati investimenti oggi fatti nell´istruzione potranno tradursi in un futuro non molto lontano in maggiore spesa per offrire protezione sociale a coloro che, in un mondo sempre più competitivo, non riusciranno a trovare o mantenere a lungo un posto di lavoro. Per questi motivi Francia e Germania si sono mosse in direzione diametralmente opposta alla nostra, aumentando durante la crisi la spesa per l´università e la ricerca.
Per coprire questo tentativo di scaricare una volta di più i costi sulle generazioni future, si è creata anche una cultura contraria agli investimenti in capitale umano delle famiglie. Il nostro ministro del Lavoro non perde occasione per invitare i giovani a fare «lavori manuali, umili» anziché ambire a livelli di istruzione più elevati e lavori qualificati.
Illustri editorialisti non più tanto giovani si scagliano contro il «giovanilismo» e contro gli studenti, rei di manifestare il proprio dissenso contro i tagli unilaterali all´istruzione. Prendono, questi ultimi, spesso di mira la cosiddetta «riforma Gelmini», forse perché il disegno di legge che porta il nome dell´attuale ministro dell´Istruzione ha finito per offrire copertura ai tagli, ma il vero nemico sono i tagli all´istruzione ed è molto importante che i giovani facciano finalmente sentire la loro voce.
Certo, conta non solo la quantità, ma anche la qualità della spesa per l´istruzione, conta offrire strutture adeguate e premiare il merito. Ecco una proposta per migliorare quantità e qualità: ripristiniamo lo stesso peso relativo della spesa per l´istruzione di prima della crisi, prelevandolo da quel miliardo e più di «fondi da ripartire», discrezionali, aggiuntivi previsti dalla Ragioneria per il 2010. Destiniamo queste risorse nell´immediato a interventi per garantire edifici scolastici adeguati, in cui non si corra più il rischio di essere travolti dal crollo di un soffitto e si possano tenere lezioni di materie scientifiche in laboratori adeguati. Si lavori, al contempo, per permettere di attribuire ogni risorsa restituita al fondo di finanziamento ordinario dell´università sulla base di criteri di merito, oggettivamente misurati.
Sarebbe una vera riforma perché cambierebbe radicalmente le scelte di reclutamento degli atenei. A proposito: come si fa ad attribuire intenti riformatori a chi per due anni e mezzo non ha portato a termine l´anagrafe dell´edilizia scolastica e non ha neanche nominato i vertici dell´Agenzia di Valutazione della Ricerca (Anvur)? Senza valutazione non ci può essere meritocrazia.

La Repubblica 13.12.10