attualità, lavoro

"Sistema Marchionne", di Massimo Giannini

Nel Paese degli opposti estremismi, il caso Fiat è diventato un paradigma della Modernità. Sedicenti leader sindacali lo usano con poca prudenza: una clava da brandire contro i “padroni”, rispolverando un conflitto di classe irripetibile e rievocando un clima di fascismo improponibile. Ma sedicenti pensatori liberali lo usano con poca conoscenza: una pietra angolare del riformismo, da lanciare contro tutti i conservatorismi.
Pomigliano e Mirafiori si impongono nel discorso pubblico come luoghi-simbolo di ogni cambiamento, non solo industriale. Secondo questa chiave di lettura, conservatrici sono quelle migliaia di operai che non si adattano all´idea di veder ridotto il perimetro dei diritti e peggiorato il modo della produzione. Conservatrici sono quelle casamatte della sinistra sindacale che non si rassegnano alla dura legge del mercato globale. Conservatrici sono quelle trincee della sinistra politica che non scorgono nella trasformazione post-fordista della fabbrica l´opportunità di riscrivere il proprio decalogo di valori. Conservatrici sono persino quelle frange della rappresentanza confindustriale, con modelli di relazioni solide nel settore pubblico delle public utilities e collaudate nel settore privato delle piccole imprese, che non capiscono la chance irripetibile offerta dalle vertenze-pilota aperte dal Lingotto.
Chi non accetta la “dottrina Marchionne” è dalla parte sbagliata della Storia. Quasi a prescindere. E così, per sconfiggere l´ideologia delle vecchie sacche di resistenza corporativa, si adotta un´ideologia uguale e contraria: quella delle nuove avanguardie della “modernizzazione progressiva”. Questa impostazione del problema Fiat deflagra in modo potente, e patente, con l´ennesima firma separata prima sugli accordi per Mirafiori e ora sulla riapertura di Pomigliano. Pochi ragionano sui contenuti degli accordi. Molti si preoccupano di giudicare i torti della Fiom che ancora una volta si è sfilata dal tavolo. La si può raccontare come si vuole. Ma in questa vicenda ci sono due dati di fatto, oggettivi e incontrovertibili. Il primo dato: l´accordo di Pomigliano doveva essere un´eccezione non più ripetibile. Si è visto ora a Mirafiori che invece quell´eccezione, dal punto di vista della Fiat, deve diventare la regola. Chi ci sta bene, chi non ci sta è fuori da tutto, dalla rappresentanza e dunque dall´azienda. Il secondo dato: questo accordo è obiettivamente peggiorativo della condizione di lavoro degli operai e della funzione di diritto del sindacato. Si può anche sostenere che non c´erano alternative, e che firmare era la sola opzione consentita, per evitare che la Fiat smobilitasse. Tuttavia chi oggi parla di “svolta storica” abbia il buon senso di riconoscere che si è trattato di una firma su un accordo-capestro basato su un ricatto. Legittimo, per un´impresa privata. Ma pur sempre ricatto.
Per questo c´è poco da brindare di fronte al passo compiuto dal nostro sistema di relazioni industriali verso la “terra incognita” indicata da Marchionne. Per questo fanno male i modernizzatori, che inneggiano agli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano come se si trattasse degli accordi di San Valentino dell´84 (quelli sì, davvero storici) che troncarono il circolo vizioso del “salario variabile indipendente” e salvarono l´Italia dalla vera tassa occulta che falcidia gli stipendi, cioè l´inflazione. La verità è che in questa partita quasi tutti i giocatori usano carte false o fingono di avere carte che non possiedono. Il giocatore che non ha carte da giocare è il governo. Berlusconi non è Craxi, e Sacconi non è Visentini. Questo governo non è stato capace di mettere in campo uno straccio di proposta, né sulle misure per la competitività del sistema né sulla legge per la rappresentanza: ha saputo solo gettare benzina ideologica sul fuoco delle polemiche. Il giocatore che non ha carte da giocare è anche il Pd, che sa solo dividersi e non sa capire che l´unico metro per misurare il suo tasso di riformismo sta nel proporre un´agenda alternativa e innovativa per la crescita del Paese, un progetto per l´occupazione, per la produzione del reddito e per la sua redistribuzione. E sta nel riconoscere i diritti, uguali e universali, nel difenderli dove e quando serve, rinunciando a tutto il resto.
Il giocatore che usa carte false è il sindacato. La Fiom ha le sue colpe, per non aver saputo accettare il confronto con solide controproposte e non aver voluto prendere di petto il drammatico problema dell´assenteismo nelle fabbriche. La Cgil ha le sue ambiguità, per non aver potuto ricondurre a unità la sua dialettica interna, ancora dominata da una logora “centralità metalmeccanica”. Ma Cisl e Uil che si gridano “vittoria” spacciano carte false. Bonanni e Angeletti porteranno a lungo sulla coscienza una gestione gregaria dei rapporti con la politica e con la Fiat, e un accordo che per la prima volta riconosce il principio che chi non accetta i suoi contenuti non ha più diritto di rappresentanza sui luoghi di lavoro. C´è poco da festeggiare, quando peggiorano le condizioni di lavoro e si comprimono gli spazi del diritto, a meno che non ci si accontenti di monetizzare tutto questo con 30 euro lordi di aumento mensile.
Il giocatore che bluffa, infine, è Sergio Marchionne. Ha il grande merito di aver salvato la Fiat quando il gruppo era a un passo dalla bancarotta, e di aver lanciato il gruppo da una proiezione domestica a una dimensione finalmente sovranazionale, grazie all´accordo con Chrysler. Ma ora il “ceo” col golfino e senza patria, l´inafferrabile manager italo-svizzero-canadese che vive “tra le nuvole” (come il George Clooney dell´omonimo film) in transito perenne tra il Lingotto e Auburn Hill, ha il dovere della chiarezza. Verso il Paese e verso i lavoratori. C´è una questione di merito. Nessuno ha ancora capito cosa ci sia nel piano-monstre Fabbrica Italia: quali e dove siano indirizzati i nuovi investimenti, quali e quanti siano i nuovi modelli di auto che il gruppo ha in programmazione, dove e come saranno prodotti. Nessuno ha ancora capito di cosa parla l´azienda quando esalta, giustamente, la via obbligata del recupero di produttività. Con le condizioni pessime nelle quali versa il Sistema-Paese, c´è davvero qualcuno pronto a credere che questa sfida gigantesca si vince riducendo le pause di 10 minuti al giorno, o aumentando gli straordinari di 80 ore l´anno? E´ vero che in Germania e in Francia le pause sono già da tempo minori che in Italia. Ma solo un cieco può non vedere che Volkswagen e Renault hanno livelli di produttività giapponesi, macinano utili e aumentano quote di mercato grazie all´innovazione di prodotto e di processo, prima ancora che all´incremento dei tempi di produzione.
C´è poi una questione di metodo. Dove porta questa volontà pervicace e quasi feroce di mettere fuori gioco la Cgil, con piattaforme divisive che servono solo a spaccare il fronte confederale? Dove porta questa necessità di disdettare il contratto dei meccanici e di uscire da Confindustria? Si dice che Marchionne punti a un modello di relazioni industriali all´americana, dove il parametro è Detroit e non più Torino. Probabilmente è così. Ma questo tradisce una volta di più i contenuti veri del Lodo Fiat-Chrysler. Non è la prima che ha comprato la seconda, com´è sembrato all´inizio. Ma in prospettiva sarà la seconda ad aver comprato la prima, nello schema classico del “reverse take-over”. Uno schema che non prevede compromessi. Il modello è il capitalismo compassionevole degli Stati Uniti, non più il Welfare universale della Vecchia Europa. Se vi sta bene è così, altrimenti il Lingotto se ne va. Questa è la vera posta in palio del caso Fiat. Alla faccia della Modernità.

La Repubblica 30.12.10

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