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«Tornare in Italia? Mai dire mai», di Paolo Fallai

Raggiungere l’ufficio di Paola Antonelli, al Moma di New York, è facile. Basta seguire una pattuglia di bambini di sei anni e una brigata di liceali nel Cullman Education Building sulla 54 ª strada. L’ingresso principale del Moma, assediato ogni anno da 2 milioni e mezzo di visitatori, per fortuna è dall’altra parte dell’edificio, sulla 53 ª . Bambini e liceali si disperdono verso i laboratori, tra la grande parete a vetri sul «Giardino delle sculture» e una Ferrari da Formula uno appesa a muso in giù. Arrivare agli uffici, al terzo piano, significa conquistare una merce rara: il silenzio. Paola Antonelli è la curatrice del dipartimento architettura e design del Moma: è un intero piano di questo straordinario museo della creatività dedicato a definire, rappresentare e difendere il concetto di modernità. È quasi superfluo citare la rivista «Art Review» , che l’ha inserita tra le cento persone più potenti nel mondo dell’arte. Basta ricordare che un altro italiano con un incarico di tale prestigio, nel mondo culturale, non c’è. E che lei, nata a Sassari, vissuta a Ferrara, laureata in architettura al Politecnico di Milano, è arrivata al Moma a 30 anni. Sono passati tre lustri e il suo prestigio è sempre aumentato. «Ho avuto tanta fortuna— sono le sue prime parole — ho cominciato presto a lavorare e non ho mai smesso» . Paola Antonelli è perfettamente a suo agio nel caleidoscopio multicolore del suo ufficio. È più piccolo di quanto ti aspetteresti, visto il ruolo, ma libreria, tazza di caffè e piccoli portafortuna si mischiano in modo allegro e determinato. «Ho cominciato a Milano, scrivendo per “Domus”e “Abitare”— racconta — e nel frattempo insegnavo a Los Angeles alla Ucla e organizzavo mostre come free lance. Era davvero un po’ stancante fare avanti e indietro. Ho trovato un annuncio su una rivista per questo posto al Moma, ho risposto e loro mi hanno chiamato» . Sarebbe stato possibile in Italia? «Non si può mai dire, ma non credo, a parte il fatto che il Moma non esiste in nessun posto al mondo, e non c’è niente di paragonabile. Ma è difficile pensare che in Italia una trentenne donna potesse avere un posto non da assistente…» . Sorride, quando si arriva all’inevitabile domanda sull’Italia vista da qua. «Il nostro Paese è guardato con grande amore, i newyorkesi adorano tutto ciò che è italiano. Certo ogni tanto ci sono articoli sulla nostra situazione politica, ma l’America, come dice mio marito, non può non adorare l’Italia, è talmente inerme» . Non è un gran complimento e lo sa. Infatti aggiunge subito: «Amano i film come Cinema Paradiso, il Neorealismo e l’Italia del dopoguerra, bella e poverissima eppure sofisticata come qui si sognano: insomma un posto dove non funziona nulla» . D’altronde, è stata lei a sostenere che sul design i newyorkesi hanno una storia di complesso d’inferiorità nei confronti dell’Italia: «Anche perché qui non c’è modo di acquistare oggetti di design belli, come facciamo noi ogni volta che vogliamo comprarci un letto o un divano. La maggior parte dei negozi sono frequentati da arredatori e architetti. Spesso la persona che userà il letto non è la stessa che andrà a comprarlo» . Accosta spesso design e qualità della vita. «Il design ci aiuta a vivere meglio, senza dubbio. È quasi una cosa scontata da dire agli italiani. È invece una formidabile arma di propaganda per l’Italia in America» . Nella sezione architettura e design del Moma si può trovare l’originale della Vespa 150 di Corradino d’Ascanio, i primi Mac, l’ultima Smart e naturalmente la Lounge Chair di Charles e Ray Eames. Sembra che la sua sezione non conosca limiti, ma non è del tutto vero. «Ci sono una serie di tabù storici che il Moma si porta dietro dai suoi 82 anni di storia: niente moda, niente art déco, niente post moderno. Hanno a che fare con l’idea che il design deve essere senza tempo. Per il resto no, non ci sono barriere: lo scorso anno abbiamo inserito la chiocciola di Internet, quest’anno i 23 principali caratteri tipografici e per il futuro stiamo pensando ai giochi elettronici. Non abbiamo problemi di categoria, se non altro perché la definizione di design, di moderno, dobbiamo sempre rimasticala per cercare di mantenerla contemporanea» . Tra i suoi ultimi successi c’è Design and Elastic Mind, una mostra della primavera del 2008. «Ero terrorizzata prima dell’apertura: quando sei un curatore devi dare nuovi canoni, nuove certezze e mi sembrava di non aver chiuso il cerchio. Ero convinta che sarei stata severamente criticata. E invece proprio perché non era finita, la gente l’ha apprezzata molto di più, ognuno la completava a modo suo. Ho imparato che se percepisci che si sta muovendo qualcosa nella cultura, hai un’idea sulla direzione e la proponi con entusiasmo e con una buona selezione di oggetti, funziona» . Eppure siamo abituati a pensare l’arte come oggetti concreti, un quadro, una scultura. Resta difficile immaginare di poter esporre il virtuale. «È un problema soprattutto di approccio culturale: ho impiegato sette mesi a convincere alcuni miei colleghi prima di poter portare al nostro comitato la proposta di acquisizione della chiocciola di Internet. E invece il comitato ha detto di sì in dieci minuti. Si è trattato di una acquisizione concettuale più che virtuale, per far capire che quando si fa una collezione di design le leggi della fisica non dovrebbero fermarci. La chiocciola è di dominio pubblico, appartiene a tutti: vuol dire che appartiene anche a noi e a nessuno, quindi posso metterla sul muro e non ci sono problemi. Sono anni che voglio acquisire un 747» . Tutta la parete esterna dell’ufficio di Paola Antonelli è a vetri ed è come lavorare sospesi sulla città. Ed è vero che nel vano scale della nuova ala c’è un elicottero verde. Ma non si capisce dove lo metterebbe un 747. «Ma da nessuna parte — si affretta a chiarire, sorridendo— vorrei lasciarlo volare. Si tratta di fare un contratto di licensing con una linea aerea che abbia un 747 e mettere il nome del Moma sulla carlinga. È tutto previsto, devo solo convincere gli indecisi. Si potrebbero anche acquisire edifici, ma in quel caso bisognerebbe comprarli, sarebbe più giusto» . Rimane difficile il percorso. «Perché i problemi maggiori sono pratici. Per esempio con i caratteri tipografici quello che vorremmo veramente è il codice. La tecnologia cambia e cambiano i formati. L’unica sicurezza di poter riproporre i caratteri tipografici esattamente così come sono tra sessanta anni è avere il codice. Però è molto difficile perché è come chiedere la formula della Coca Cola. Nel dipartimento di conservazione del Moma, che si occupa di tutelare i Matisse e i Picasso, c’è una persona dedicata solo al digitale» . Nell’apparente disordine del suo studio, nella cura per la piccola serie di rane portafortuna «che non mi abbandonano mai» si capisce perché una delle emozioni più forti, nella sua sezione, si prova davanti a un pezzetto di carta: quello del primo schizzo del marchio I Love New York di Milton Glaser: «È l’origine di un mito. Copiatissimo in tutto il mondo. Quando ho chiesto a Glaser di esporlo e ha detto subito di sì, non potevo crederci» . Architettura e design significano anche soldi, moltissimi soldi per le aziende italiane. Nelle sale del Moma, dove a ogni angolo si parla italiano, resta il dubbio se si possa fare qualcosa in più. «Va bene tutto— conferma— purché ci sia un ritorno. Spesso ci sono aziende italiane che fanno meravigliose manifestazioni negli Usa con cibo a volontà e arte. A New York ha aperto Eataly, un grande centro sulla gastronomia italiana e sta riscuotendo un enorme successo. Ma è l’Italia a dover difendere le proprie eccellenze: per il Salone del mobile gli aerei erano pieni di americani che andavano a Milano» . Insomma in Italia ci lamentiamo troppo. «Be’ sì, è stato vero per molto tempo. Ma adesso ci sono buone ragioni per farlo. Vorrei tanto che invece di piangere succedesse anche qualcosa» . Come una proposta di
lavoro a Paola Antonelli? «Mai dire mai. Magari a Napoli, è sulla stessa latitudine di New York» .

Il Corriere della Sera 22.05.11