attualità, partito democratico, politica italiana

"La Chiesa, il voto e il Pd", di Pierluigi Castagnetti

«Il vento cambia», dice un manifesto del Partito democratico.
Si potrebbe dire che è già cambiato. Nelle città in cui si è votato hanno vinto pressoché sempre i candidati che segnavano il cambiamento e l’alternativa al berlusconismo. Sia che fossero solidi e storici esponenti della sinistra (Torino), o gaffeur incalliti (Bologna), o esponenti di movimenti più a sinistra o radicali (Milano, Cagliari, Napoli), o esponenti riconoscibili della tradizione cattolico-democratica (Pavia e Novara), o addirittura esponenti di partiti di centro sostenuti dal Pd (Macerata, Mantova, Olbia).
Il malessere sociale, il divario fra le priorità dei cittadini e quelle del governo, ma non solo, hanno creato una reazione, un risveglio civico assolutamente incontenibile.
Se si pensa alla lunga campagna politica del Pd contro l’assenza del governo nazionale su tutte le questioni che interessano l’Italia e gli italiani, si può ben dire che è legittima la sua rivendicazione di gran parte del merito per un tale clamoroso cambio di direzione del vento.
L’analisi, impeccabile e sobria, l’ha fatta ieri Bersani nella direzione nazionale del partito.
In questa sede vorrei occuparmi di un tema per nulla marginale, quantunque ancora non affrontato: il rapporto della Chiesa italiana con questo risultato, con questo cambio di direzione del vento. Qualcuno ha accennato (il Corriere della Sera di domenica scorsa, per non parlare dei giornali della destra che ne hanno parlato come sempre in termini grevi e insultanti) al ruolo che avrebbe avuto il cardinale Tettamanzi a Milano. «Mi attribuiscono ruoli politici, ma io mi limito a leggere il Vangelo», ha risposto in termini apparentemente disarmanti l’Arcivescovo. In effetti è proprio così, il Vangelo è così “altro” da disarmare chiunque lo sfogli senza pregiudizio. E lui, Tettamanzi, in una città che sembrava ipnotizzata dagli idola paganeggianti di questo tempo, ha ritenuto e non da oggi di dover semplicemente sfidare l’impopolarità con le parole antiche eppure attuali del Vangelo. Lo hanno aggredito mediaticamente, e non solo, insultato, strattonato in modo spesso volgare al punto da costringere il direttore di Avvenire a intervenire in sua difesa ben due volte negli ultimi giorni, ma lui non si è mai scomposto, anzi ha sempre ribadito con candore e convinzione le parole del Vangelo. Indicando indirettamente a tanti suoi confratelli la via, cioè l’attualità di quella Parola se proclamata e testimoniata nella sua semplice integrità.
Stiamo parlando, è il caso di sottolinearlo, di un vescovo la cui biografia non consente a nessuno di classificarlo come “di sinistra”, prova ne è il lungo lavoro al fianco del cardinal Ruini come segretario della Cei. Se questa sua testimonianza nella cattedra ambrosiana abbia avuto qualche influenza nella vittoria di Pisapia non sono in grado di dire, escludo che possa averlo avuto in modo diretto o anche solo intenzionale.
Certo è che quella lezione, il Vangelo, ha la forza di aprire i cuori e rendere libere le coscienze e, dunque, qualche effetto in questo senso lo avrà prodotto, in quella capitale degli affari del paese, esortata dal suo cardinale a ritrovare la via e l’ambizione di esserne anche capitale morale.
Ma Tettamanzi ha parlato a Milano. E al resto del paese chi ha parlato ? Ha parlato tutta la Chiesa guidata dal cardinale Bagnasco.
Se è vero, come ritiene la maggioranza degli osservatori e lo stesso Berlusconi, che il feeling tra il cavaliere e il paese ha subito un colpo micidiale dalle vicende Noemi– Daddario–Minetti–Ruby è soprattutto vero che la botta più inaspettata e decisiva è venuta dalla Chiesa, che è passata dalla «contestualizzazione » del peccato di monsignor Fisichella al giudizio che non ammetteva appello della Segreteria di stato prima e della presidenza della Cei poi. Mai era stato espresso giudizio più tranciante sugli esiti del berlusconismo: il paese che si trova in una condizione di «disastro antropologico » – è stato detto dalla Cei – ha necessità di una nuova e profonda «alfabetizzazione etica». Una sentenza senza attenuanti che è risultata oggettivamente assai influente nel cambiare il paradigma valutativo, che sembrava inossidabile, in quella parte del paese (anche dei non credenti), che considera punto di riferimento sicuro e autorevole nei momenti di sbandamento la parola della Chiesa.
Il Pd su questo dovrebbe riflettere, rinunciando a giudizi superficiali.
Sbaglierebbe, infatti, se ritenesse di trovarsi di fronte a una “svolta politica” della Chiesa. Non è così. È vero che il cardinal Ruini aveva una ben precisa, e persino rivendicata, strategia politica che lo ha portato a collocare anche in situazioni imbarazzanti la Cei a fianco del centrodestra.
Il cardinal Bagnasco invece non sembra muoversi con un disegno politico. Il suo appare sempre più un disegno squisitamente pastorale, che lo induce oggi a dissociare le sorti della Chiesa da quelle di Berlusconi il cui declino viene ritenuto inarrestabile, ma non lo porta a considerare la sinistra come parte politica capace di opzioni apprezzabili sui temi che stanno a cuore alla Chiesa. Per la sinistra, in specie per il Pd, si pone allora il problema non tanto di aprirsi a scelte “confessionali”, ma più semplicemente di decidere se ritiene di disinteressarsi del tutto di ciò che sta avvenendo nella Chiesa italiana o al contrario se cercare un dialogo, un’interlocuzione, ovviamente in termini di reciproca autonomia e trasparenza, con questa Chiesa “depoliticizzata”, e pur sempre assai interessata alla condizione di sofferenza e disorientamento della società italiana. Ciò che il Pd deve comprendere è che non si tratta di “aprire al centro” ritenendo che ciò risolva il problema: io penso che lo si debba fare ma per ragioni politiche, non certo per conquistare la Chiesa.
Si tratta piuttosto, a mio avviso, proprio ora che si enuncia la necessità e la volontà di un “ricominciamento” progettuale, culturale ed etico, di scegliere in modo non strumentale e trasparente, dunque laico, il pensiero cristiano e il magistero della Chiesa come interlocutori ineludibili. Nella consapevolezza peraltro che, come si vede già da alcuni importanti segnali nel dibattito postelettorale della destra, da quella parte la stessa esigenza è già in agenda. Per questo io penso che il solo anno che probabilmente ci separa dalle prossime elezioni politiche non sarà per nulla in discesa e privo di dilemmi che non potranno essere elusi. E questo che ho indicato per il Pd sarà uno dei più impegnativi.

da Europa Quotidiano 07.06.11

******

“Lista unica con Sel e Di Pietro scelta vincente col Nuovo Ulivo”, di Simona Poli

D´Alema e Veltroni ci hanno fatto vincere, perdere, sognare. Ora Bersani guardi alle nuove esperienze. Non funziona il Pd all´acqua di rose. Invece di inseguire alleanze con Udc e Terzo polo noi dovremmo concentrarci sul rafforzamento dell´asse con Sel e Italia dei Valori: le amministrative dimostrano che dove corre unito il centrosinistra viene premiato». Non ha dubbi il presidente della Toscana Enrico Rossi: la ricetta per vincere le elezioni politiche si chiama Nuovo Ulivo, una formula usata di recente anche da Romano Prodi.
D´Alema non la pensa come lei, anzi dice l´opposto. E anche Bersani lascia la porta aperta a possibili intese con Casini. Sbagliano entrambi?
«È giusto dialogare con l´Udc sui temi costituzionali e le grandi riforme ma non fare di questo il punto centrale del nostro lavoro. La priorità sono le cose da fare, le proposte, i programmi, la scelta dei candidati con le primarie e soltanto dopo le alleanze. E poi, attenti: il giorno in cui Berlusconi si ritirasse davvero ritengo assai probabile che Casini e Fini giocherebbero la loro partita nel centrodestra. Non servono tatticismi, l´impegno prioritario è compattare le forze di opposizione che possano riconoscersi in quello che chiamo Nuovo Ulivo».
In caso di primarie Bersani e Vendola potrebbero sfidarsi.
«Facciamo un passo per volta, quando si porrà il problema lo affronteremo. Bersani esce rafforzato da queste elezioni ed è il nostro leader naturale. Io l´ho sostenuto fin dall´inizio, non lo dico certo da ora, sta scritto nello statuto del Pd. E meno se ne parla meglio è».
Non le piace il Pd annacquato, dice. Lo vorrebbe più rosso?
«Non invoco certo il ritorno ai simboli del passato, in Italia il muro di Berlino è caduto fin troppo tardi. Ma oggi al primo posto c´è la questione sociale, che è la vera e propria emergenza. Il socialismo di Blair ha fallito proprio perché si è lasciato attrarre dalle sirene del liberismo. Così la sinistra ha perso buona parte dei suoi riferimenti, soprattutto nel mondo del lavoro».
Vendola sottoscriverebbe al volo.
«In Toscana ce lo abbiamo un cattolico che ha fatto proprie le battaglie sociali ed è La Pira: ha requisito le case per gli sfrattati e difeso posti di lavoro. La politica è anche passione, non lo scordiamo, e deve saper parlare al cuore. Dietro al risultato elettorale c´è chi non ne può più di Berlusconi e dei suoi eccessi ma c´è anche una questione di disagio sociale, perché la crisi comincia veramente a colpire. Abbiamo stipendi fermi a 1000-1200 euro, quattro milioni di precari, decine di migliaia di operai in cassa integrazione, un mondo di partite Iva composto da supersfruttamento e 250 miliardi di evasione fiscale. Il Pd deve stare dentro a questo movimento della società ed elaborare proposte serie».
Renzi sostiene che più dei partiti conti la personalità del candidato.
«Non sono d´accordo. Bisogna utilizzare bene le primarie e lavorare per avere partiti forti e organizzati che siano davvero un luogo di discussione e formazione. Queste elezioni ci insegnano che il partito del padrone subisce una sconfitta, a Milano Berlusconi perde metà preferenze».
Serve un rinnovamento nel partito, almeno?
«Non c´è dubbio. D´Alema e Veltroni sono i dirigenti che ci hanno fatto vincere, perdere, anche sognare. Ma adesso c´è bisogno di un ricambio, Bersani deve guardare alle esperienze nuove sul territorio, agli amministratori che abbiano dimostrato di avere capacità e di sapere far bene politica».

La Repubblica 07.06.11