attualità, politica italiana

"Un Paese che non c'è", di Cesare Martinetti

Il ritorno in libertà di Cesare Battisti segna l’ultimo atto di una vicenda che si chiude con una sconfitta totale dell’Italia. Non solo per la giustizia negata di cui si lamenteranno – a ragione – i parenti delle vittime di Battisti e della sua banda (i Pac, proletari armati per il comunismo). Ma anche e soprattutto per il vuoto di credibilità internazionale del nostro Paese. Va detto subito, a scanso di equivoci, che non stiamo parlando di un governo o di questo governo, ma dell’Italia in quanto insieme di storia, valori, rappresentazione di se stessa. Non dell’Italia da cartolina per la quale andiamo fortissimo, ma dell’Italia in quanto idea che questo nostro Paese ha di se stesso. Il caso Battisti racconta proprio questo: un Paese che non ha una storia elaborata e condivisa e che quindi quando c’è da mettere sul piatto della bilancia il peso del proprio essere, si rivela contraddittoria, inconsistente e alla fine perdente.

Vediamo da vicino questo caso Battisti, annoso e complesso, ma proprio per questo rivelatore. In sintesi: il suddetto, evaso da un carcere italiano, accusato di rapine, terrorismo e quattro omicidi, dopo qualche anno passato in Messico, nell’89 arriva Parigi e viene arrestato. La giustizia italiana chiede la sua estradizione. I giudici francesi non dicono di no, ma sospendono il giudizio in attesa del suo ultimo processo in corso in Cassazione che arriva ed è la conferma delle condanne. Ma a quel punto tutto si ferma e l’Italia, quando ne avrebbe avuto tutto il diritto, non reclama l’estradizione del terrorista. Fino al 2004 quando i due governi si mettono d’accordo per sanare quest’equivoca questione dei latitanti italiani. L’accordo è di fatto una sanatoria, salvo che per i condannati per omicidio, una dozzina, tra i quali Battisti, che viene arrestato per primo. E qui comincia il suo caso che ha due profili: quello giuridico e quello politico-cultural-mediatico. Nel primo profilo l’Italia stravince. Grazie all’azione appassionata, convinta e competente dei diplomatici e del giudice di collegamento che si applicano alla causa, la giustizia francese riconosce le buone ragioni dell’Italia e concede l’estradizione, in primo grado e in appello. I difensori di Battisti ricorrono anche alla Corte Europea, solitamente sospettosa nei confronti della nostra giustizia. Ma anche qui l’Italia vince: a Battisti che invoca l’applicazione della «dottrina Mitterrand» i giudici di Strasburgo fanno notare che la suddetta «dottrina» non vale per i condannati per reati di sangue (chi vuole il documento legga «Le Monde» del 25 febbraio 1985).

Che succede a questo punto? Che il governo francese, anzi il primo ministro (all’epoca Jean-Pierre Raffarin, destra gollista) firma il decreto di estradizione, ma contemporaneamente i servizi di sicurezza (che difficilmente prenderebbero un’iniziativa del genere senza il consenso del ministro dell’Interno, all’epoca Nicolas Sarkozy) regalano a Battisti ben due passaporti falsi e lo «esfiltrano» dalla Francia consigliandogli di puntare sul Brasile.

Perché succede questo? Perché sotto il profilo che abbiamo chiamato politico-cultural-mediatico l’Italia perde la sua partita. Battisti, da piccolo criminale comune politicizzato in carcere e diventato terrorista, killer dei Pac, scrive un paio di «polar» (romanzi gialli) e viene eletto a simbolo dei ribelli che negli Anni Settanta hanno tentato di cambiare le cose in quel Paese corrotto e mafioso che si chiama Italia.

Un’autorappresentazione freudiana da rivoluzionari falliti in cui si identificano anche intellettuali di primo piano come Bernard-Henri Lévy, Daniel Pennac, Edgard Morin. E insieme una rappresentazione grottesca e caricaturale dell’Italia vista come il Cile di Pinochet. I giornali scrivono assurdità tipo che Battisti era stato condannato da un tribunale militare speciale, la giallista Fred Vargas diventata la grande protettrice del perseguitato pubblica un pamphlet dove si può leggere che all’epoca in Italia vi erano 60 mila prigionieri politici. Il sindaco di Parigi, il socialista Bertrand Delanoë, conferisce solennemente la cittadinanza onoraria a Battisti, dichiarando che da quel momento lo si doveva considerare sotto l’alta protezione della città di Parigi.

In questo festival dell’assurdo la voce dell’Italia è totalmente inudibile. Mentre gli intellettuali francesi, ignorantissimi della storia italiana, firmavano appelli per la libertà del loro eroe, nessuno scrittore italiano s’è mai preso la briga di smontare la caricatura che si faceva del nostro Paese. Unica eccezione Antonio Tabucchi. Ma nessun politico di centrosinistra – nemmeno Veltroni, che Delanoë prende abitualmente a pacche sulle spalle chiamandolo «Uoltèr» – ha mai ragguagliato il sindaco di Parigi sugli anni di piombo preferendo le foto opportunity in campagna elettorale. Nessuna voce forte, dal governo, dallo Stato, da qualcuno e qualcosa che fosse riconoscibile nel mondo come «Italia». Insomma, un Paese inesistente.

Quando Battisti è riapparso in Brasile, lo schema francese si è ripetuto, preciso e identico. Anche là la Corte Suprema ha riconosciuto la piena validità della sentenza italiana e si è pronunciata per l’estradizione. Ma a differenza dell’ipocrisia di Stato francese, il presidente Lula s’è preso direttamente la responsabilità di dire no all’estradizione. Ieri notte la Corte Suprema non ha potuto che confermare la titolarità del Presidente in materia di estradizione. E anche qui nessuna entità di nome Italia ha saputo rovesciare la partita. Ha vinto ancora una volta la caricatura del nostro Paese. Cesare Battisti è libero in Brasile. Ha ragione il presidente Napolitano: l’immagine dell’Italia è stata lesa. Ma i colpevoli sono tra noi. Forse siamo tutti noi.

La Stampa 10.06.11

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“LA GRANDE MENZOGNA”, di FRANCESCO MERLO

Pensano, i brasiliani, di avere fatto una cosa di sinistra. Lo hanno messo fuori dal carcere credendo di rendere un omaggio al libero pensiero. Si illudono di avere salvato un Garibaldi o un Che Guevara, un eroe della libertà. E invece Cesare Battisti premeva grilletti e svuotava caricatori come un qualsiasi assassino. Perciò i brasiliani stanno offendendo innanzitutto la coscienza della sinistra che ha come prima virtù civica il rendere giustizia e il dare dignità alle vittime.
La libertà di Battisti marchia con la menzogna la memoria delle vittime e la storia del nostro Paese. Gli assassinati infatti non erano liberticidi, emissari della reazione, agenti dell´imperialismo. Erano poveri uomini che non sono stati ammazzati per costruire un mondo più giusto ma per dare corpo a quegli incubi con i quali fecero i conti i migliori di noi, gli operai, i sindacalisti, i poliziotti… e il Partito comunista di allora. Qualcuno in Brasile dovrebbe raccontare questa storia. E dovrebbero essere i giornalisti di sinistra, gli intellettuali coraggiosi, gli artisti… Ci vorrebbero i Benigni e gli Umberto Eco delle Americhe per far capire questa verità banale e di sinistra: la vittima è più importante dell´assassino. E Battisti non è mai stato, neppure alla lontana, un difensore del popolo.
Di più: adesso che è libero, questo inganno culturale lo rende peggiore di quando stava in galera. Perché ormai la sua pena è la pena che ci fa. Delle altre pene, quelle dei tribunali normali, ben quattro ergastoli per quattro omicidi, è stato liberato con una violazione del Diritto, del buon senso e degli accordi internazionali. Ci rimane il suo ghigno. Guardatelo bene nelle foto: è il sorriso della morte.
Cesare Battisti sarà anche orgoglioso e contento di sé perché, uscendo di galera, è stato accolto con grida di giubilo. Tornerà a scrivere i suoi romanzi, potrà andare in giro e muoversi per le strade del mondo, e se vuole potrà pure tornare ad aggirarsi tra i banconi di un´armeria, che fu la sua specialità e la sua passione, come per gli intellettuali è la libreria e per i bambini è il lego. Ma di sicuro la nostra pena lo accompagnerà come un´ombra e la morte che ha dato lo rivestirà per sempre come un sudario. Lo ripetiamo: le astuzie giudiziarie, le giustificazioni politiche e l´inganno internazionale lo rendono peggiore.
E´ infatti vero che non godiamo mai di un uomo in galera. Ma ancor meno godiamo di un omicida libero, di un assassino che è diventato più spavaldo di prima, che non si è mai pentito, che non è uscito da quella prigione nascondendosi la faccia. E lo si capisce subito che Battisti non ha nemmeno la dignità dei duri. Allora fondò la sua forza sulle armi e sull´agguato e ora fonda la sua libertà sul più sfacciato degli imbrogli, su una solidarietà fondata su un´enorme bugia militante che offende innanzitutto proprio quell´idea che il Brasile pensa di dovere e di sapere garantire. Il Brasile in buona fede ha premiato la malafede di Battisti che anche per questo è peggiore adesso che è stato liberato: dopo avere messo nel carniere le vittime ora ha messo nel sacco l´intero Brasile.
Dunque, qualunque cosa faccia, Cesare Battisti è diventato uno scandalo, è il dolore dei parenti delle sue vittime, è l´attenzione degli italiani che ormai sanno esattamente quale ferocia ha commesso, di quali colpe si è macchiato, conoscono il trucco e hanno smascherato la menzogna nel quale ha trascinato la storia del Paese.
Quando ancora era latitante, Battisti godeva infatti della distrazione generale, era un problema di diritto, di giudici e di avvocati, poco più di una cinquantina di persone compresi i parenti e i complici politici. Adesso, dispiace dirlo, ma quell´uomo libero prima di essere un uomo è un oltraggio: ai parenti, all´Italia, al nostro presidente della Repubblica che pure ha conosciuto le asprezze della lotta politica e dunque sa valutarne la ferocia e gli eccessi. Il dolore di Napolitano è il nostro, perché non è un dolore politico. Anche il nostro, come il suo, è un malessere umano, pienamente e solamente umano. Attiene infatti ai dati elementari di una comunità che è fatta di affetti familiari, materni, filiali, fraterni, coniugali. Insomma i figli, i nipoti, i fratelli delle vittime di Battisti non sono una congrega politica ma sono un´umanità straziata dall´incomprensibile politica che lo ha messo fuori.

La Repubblica 10.06.11