economia

"Un patto non dirada la nebbia", di Bill Emmott

L’ accordo quadro sulla manovra fiscale concordato ieri tra democratici e repubblicani al Congresso degli Stati Uniti e la Casa Bianca all’altro capo di Pennsylvania Avenue, non è un granché e non è nemmeno di ampio respiro. Ma quanto meno è un accordo, e assumendo che sia accettato dal Congresso durante i prossimi due giorni eviterebbe alle finanze pubbliche una crisi del tutto superflua, potenzialmente in grado di innescare una nuova crisi finanziaria globale. Anche così, non è la fine della storia, non a lungo termine.

Il direttore di una rivista italiana di recente mi ha chiesto cosa pensassi circa la differenza tra la crisi monetaria dell’Europa e quella dell’America, dicendomi che a suo avviso l’America ha il grande vantaggio di avere un sistema presidenziale. Spero che non lo pensi adesso, ma in ogni caso davvero dovrebbe prestare maggiore attenzione alla Costituzione americana. Perché questo dibattito farsesco sul tetto del debito è tutta colpa dei padri fondatori: Jefferson, Washington e gli altri.

Hanno progettato la costituzione americana, con tutti i suoi pesi e contrappesi, espressamente per ostacolare il potere decisionale di un singolo, in particolare del Presidente che avrebbe potuto rischiare di diventare dittatoriale come il re britannico Giorgio III, e sono certamente riusciti nell’intento in modo spettacolare nel corso della lunga discussione sull’innalzamento del tetto del debito nazionale di 14.300 miliardi di dollari («soffitto di debito», una sorta di limite di indebitamento legale) per evitare un default o una massa di tagli alla spesa, dopo il 2 agosto.

Un fatto degno di nota, di certo, è che in tutto questo processo praticamente nessuno nei mercati finanziari ha finora previsto il default dell’America, o anche il declassamento dalla tripla A del suo rating.

Si metta a confronto l’andamento delle trattative di questo fine settimana con quelle precedenti il vertice di emergenza della zona euro, il 21 luglio: mentre i rendimenti obbligazionari della zona euro, in particolare per la Spagna e per l’Italia, erano saliti per la paura di un default da mini-Grecia, il mercato dei buoni del Tesoro americani è rimasto abbastanza tranquillo. I tassi dei buoni del Tesoro a breve o medio termine sono saliti un po’, ma quelli a 10 anni in effetti venerdì sono caduti. Il dollaro è scivolato, ma non esattamente in modo catastrofico.

Forse i mercati aderiscono alla cinica visione che Churchill aveva dei suoi alleati: «Si può sempre contare sugli americani, fanno la cosa giusta… dopo aver provato tutto il resto…».

Più probabilmente avevano già previsto tutto; i negoziati dell’ultima ora conclusi con un cattivo affare, ma almeno conclusi, e l’apparente accordo di ieri per un presunto taglio di 3000 miliardi di dollari alla spesa in oltre dieci anni sembrano dimostrare che hanno avuto ragione. Più in profondità, la loro impassibilità potrebbe riflettere la sensazione che il vero problema è un po’ più a lungo raggio rispetto a quanto è stato rappresentato da un termine in qualche modo artificiale, come la scadenza del tetto del debito.

Il vero problema comprende un fenomeno a medio termine e una questione a lungo termine, anche se strettamente correlati. Il primo è simboleggiato, ma non circoscritto al gruppo dei conservatori repubblicani dentro e fuori il Congresso che si fanno chiamare Tea Party.

Quel gruppo, le cui eroine sono Sarah Palin e una ardita congressista del Minnesota, Michele Bachmann, è stato il cuore del blocco durante i negoziati sulla riforma fiscale e il limite del debito. Come in ogni Paese, quando c’è una piccola maggioranza parlamentare e del Congresso, un gruppo di fanatici può ottenere un potere di veto che va oltre la sua reale capacità di rappresentanza numerica. Fortunatamente, sembra probabile che il veto ora possa essere superato da un compromesso tra le forze più moderate.

I Tea Party, tuttavia, rappresentano più di un semplice veto temporaneo. La migliore analogia storica è con il movimento isolazionista nato in America durante gli Anni 30. La posizione dei Tea Party sull’ampio debito americano, sembra, di primo acchito, abbastanza ragionevole: quando qualcuno ha preso in prestito troppo, dicono, è sbagliato concedergli di più.

Ma in realtà, cercare di curare i debitori tutto d’un colpo, negando loro ogni prestito e obbligandoli a mancare ai loro obblighi, obblighi che sono stati tutti stabiliti dal precedente voto del Congresso, sarebbe stato irresponsabile e, all’atto pratico, isolazionista.

Isolazionista perché l’America è la più grande economia del mondo così come la sua più grande debitrice, e molti dei suoi titoli di Stato sono detenuti da stranieri. Un default sarebbe sostanzialmente un default sul debito estero. Ma i Tea Party non si preoccupano degli stranieri, o della credibilità internazionale del loro Paese.

Come il movimento America First negli Anni 30 e durante i primi anni della Seconda guerra mondiale, essi sostengono che il Paese dovrebbe lasciar perdere il mondo per risolvere i propri problemi, lasciare che l’America si concentri su se stessa. Peggio ancora, in un certo senso, alcuni nei Tea Party vedono il mondo come una minaccia per l’America: la signora Bachmann, attualmente l’unica dei Tea Party a essersi presentata come candidata alla presidenza per il 2012, due anni fa ha proposto un emendamento costituzionale per impedire che il dollaro venga sostituito da una valuta estera, cosa che in realtà era già illegale e che nessuno pensava di fare. Il suo obiettivo era quello di creare l’apparenza di una minaccia là dove non esisteva.

Quando nel 2008 è scoppiata la crisi finanziaria, molti economisti temevano che avrebbe prodotto un’ondata di protezionismo, soprattutto negli Stati Uniti, e ci sono stati sospiri di sollievo quando questo non è successo. Eppure la nascita dei Tea Party e il voto per il Congresso dello scorso novembre suggeriscono che la vera minaccia è l’isolazionismo, che nel tempo può produrre una nuova ondata di protezionismo commerciale e finanziario.

Sarebbe sbagliato sopravvalutare l’importanza attuale dei Tea Party: rimane una piccola minoranza rumorosa. Ma la grande battaglia di medio termine è per la Casa Bianca e per il controllo del Congresso nelle elezioni del novembre 2012.

Sarebbe rassicurante credere a tutte le persone comuni intervistate dai tg delle tv straniere che si dicono imbestialite dal comportamento irresponsabile del Congresso, in particolare dall’ostruzionismo dei Tea Party, e pensare che nelle elezioni del prossimo anno gli estremisti andranno in sofferenza.

Queste persone sono state intervistate a Washington DC e New York, e possono anche non essere rappresentative della nazione. C’è molto ancora da mettere in gioco per le elezioni del prossimo anno, e i conservatori repubblicani giocheranno in modo assai duro.

Così, la questione a lungo termine al centro della scena sarà: l’economia americana può fare ciò che ha fatto in passato, e rilanciare e riformare se stessa dal basso, nonostante le inutili partite politiche giocate a Washington? E’ notoriamente flessibile, e i veri eroi americani sono sempre stati Google, Wal-Mart, Apple e Boeing, non i lungimiranti visionari politici della capitale.

Ma gli ultimi dati economici, diffusi la scorsa settimana, hanno mostrato un quadro altrettanto stagnante in America come in Gran Bretagna. Questo non è sorprendente, in entrambi i casi: dopo aver fatto troppo affidamento sulle spese dei consumatori e sul boom del credito, entrambi i Paesi erano destinati a passare attraverso un lungo e doloroso periodo di adattamento. Anche con le esportazioni in crescita, che è il caso dell’America e della Gran Bretagna, è difficile superare completamente gli strascichi del dopo crisi, e questo era vero anche prima che i rincari dei prezzi del petrolio e dei generi alimentari facessero sentire i consumatori ancora più poveri.

Questo andrà avanti per molto tempo a venire. In un primo momento la politica fiscale è stata una soluzione, in quanto il prestito ha stimolato l’economia. Ora è un problema, perché i tagli, per quanto necessari, deprimono la domanda. In America, dove i tagli sono comunque stati differiti, c’è una complicazione aggiuntiva: la lunga disputa sulla politica fiscale e l’impostazione del governo, che durerà fino e oltre le elezioni del 2012, sta producendo una fitta nebbia che offusca non solo il futuro fiscale del Paese, ma anche il futuro delle relazioni dell’America e il suo atteggiamento verso il mondo esterno.

In questo contesto confuso e altamente incerto, sarebbe veramente miracoloso se le imprese dovessero decidere per investimenti massicci in America. Quindi la migliore ipotesi, purtroppo, è che non lo faranno. La disputa sul fisco continuerà, la nebbia rimane, e il mondo non può dipendere da una rapida ripresa dell’America.

[Traduzione di Carla Reschia] da www.lastampa.it