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"Il ceto medio che paga davvero", di Carlo Galli

La manovra economica non testimonia solo della riluttanza con cui il governo ha ammesso la crisi, né solo della cessione di sovranità, verso istanze esterne, che questo ritardo ha determinato. L´articolazione della manovra, che colpisce soprattutto il reddito fisso, contiene in sé anche un significato simbolico e politico. Ben chiaro a Berlusconi e ai giornali di destra, che piangono sul ceto medio tartassato anche da una imposta aggiuntiva per chi guadagna oltre i 90.000 euro l´anno (il reddito fisso di livello basso a loro non interessa).
Si tratta in realtà di lacrime fuori posto, propagandistiche e vittimistiche, che distolgono l´attenzione dai veri soggetti colpiti (appunto, l´intero lavoro dipendente in quanto tale). Infatti, non tutto il ceto medio è tartassato: quel tetto è superato da ben poche persone fisiche, per nove decimi dipendenti pubblici e dirigenti aziendali. Il mondo delle professioni – molto vicino alla destra – è assente. Anche alla luce del dettagliato articolo di Maurizio Ricci di ieri, ciò significa, concretamente, che il nostro sistema fiscale non funziona e che è inattendibile, perché la reale composizione dei ceti più abbienti è assai diversa, e vede – com´è logico – un grande concorso di lavoro autonomo; è dunque sbagliato e iniquo utilizzare questo fisco come strumento per misurare la capacità contributiva dei cittadini (da questo punto di vista la contro-manovra del Pd è più saggia, perché si serve come indicatore la proprietà delle case e i capitali rientrati, su cui si hanno notizie meno incerte).
Sotto il profilo simbolico, dunque, quella manovra non significa un attacco al ceto medio in generale, ma qualcosa d´altro. Significa – fosse o no nelle dirette intenzioni del governo – che la crisi epocale dello Stato che stiamo attraversando comprende anche la sempre minor tutela e il sempre minore potere politico e prestigio sociale dei ceti dirigenti che allo Stato fanno capo (professori, magistrati, alti esponenti della burocrazia, ma non i vertici, di diretta nomina politica), di quei ceti cioè che coniugano sistematicamente sapere ed efficacia pratica, cultura e competenza, impersonalità e imparzialità dell´agire pubblico (secondo le indimenticabili annotazioni di Max Weber).
Anche senza pensare che si tratti di un atto di guerra ideologica, di odio di classe, come pure è stato comprensibilmente detto, e anche ammettendo che si tratti solo del cinico calcolo di chi cerca soldi dove è più facile trovarli (cioè nelle categorie che non possono evadere), o in ceti elettoralmente non vicini a questa destra, pare difficile non farsi cogliere dal dubbio che il significato simbolico di questa situazione è che agli occhi dei politici di maggioranza la burocrazia abbia perduto valore, perché hanno cominciato a dubitare dell´utilità della sua funzione – strutturare la società secondo procedure scientifiche dietro input politico.
Non c´è bisogno di ricordare le tesi estreme, presenti anche nel governo, secondo cui la società tendenzialmente si governa da sé, e lo Stato fa parte dei problemi e non della soluzione. E´ sufficiente comprendere che i dirigenti pubblici hanno storicamente di solito avuto un orientamento filo-governativo. Ma si trattava di governi che credevano nel ruolo pubblico e politico del sapere pratico (o che almeno ne intuivano l´utilità) e che rispettavano la legittimità intrinseca della burocrazia (e in generale dei dipendenti pubblici), ovvero il merito certificato da un concorso, come vuole la Costituzione. Il che consentiva al burocrate di essere leale ma di identificarsi nello Stato, non nei governi; di essere neutrale, non direttamente politico; di servire la cosa pubblica, non una parte. Ma per la cultura politica di questo governo, fondata sull´emozione ideologica, sull´identificazione nel Capo, sul populismo, è evidentemente estranea la funzione di chi si identifica nello Stato, nel proprio ufficio, nel proprio sapere.
Gli elementi punitivi dei ceti medi statali, presenti nella manovra, nascono dunque da circostanze di fatto, dall´estraneità dei dipendenti pubblici allo scambio fra libertà di comportamenti (anche fiscali) e consenso politico su cui si è fondato il ciclo berlusconiano. Ma nascono anche da ragioni più radicali, perché nel dipendente statale c´è un´indipendenza – in linea di principio – che non lo fa aderire facilmente alla politica come viene concepita e praticata oggi. Una politica che anche nell´emergenza prosegue la grande lotta contro lo Stato che caratterizza questa fase storica, al punto che si può dire che lo Stato (nella sua configurazione allargata, tipica del dopoguerra) è l´ultima creatura politica del Novecento (dopo il fascismo a metà secolo, e il comunismo a fine secolo) a uscire di scena, tendenzialmente travolto dalle nuove forme dell´economia globalizzata e finanziarizzata.
Non si tratta di un´analisi accademica ma di una questione politica immediata: una società che non si prende cura della riserva di sapere, di capacità pratica e di indipendenza che lo Stato rendeva possibile è invertebrata, proprio in quanto priva di quei ceti medi di cultura e di competenza in cui prendeva forma e figura efficace l´azione ordinativa dello Stato, in cui era contenuta una possibilità di continuità e di sviluppo della funzione pubblica. L´esistenza non di poche isole più o meno d´eccellenza, ma una rete diffusa di saperi autorevoli e prestigiosi perché imparziali, efficaci, fondati sul merito, dotati di forte ethos d´ufficio, è una questione che interpella non tanto questa o quella parte politica, ma tutto il Paese. Se vuole ancora preoccuparsi del proprio futuro, oltre l´emergenza.

La Repubblica 15.08.11