attualità, politica italiana

"Gli effetti del voto blindato", di Federico Geremicca

Aveva utilizzato perfino un incontro mattutino col ministro degli Esteri, sperando che Frattini potesse fare in qualche modo da ambasciatore nei confronti del presidente del Consiglio. E il titolare della Farnesina – in verità – non è venuto meno all’impegno: così, lasciato il Quirinale e utilizzando un post sul proprio blog, ha auspicato che la manovra venisse approvata attraverso un confronto con l’opposizione e senza la «blindatura» del voto di fiducia. Silvio Berlusconi ha invece deciso di battere un’altra via, diciamo pure la solita via: e basterebbe questo per intendere qual era l’aria che si respirava ieri sera nelle stanze ordinatamente frenetiche del Quirinale.

Uno stato d’animo scisso: forse l’umore di Giorgio Napolitano potrebbe esser descritto così. Da una parte, la consapevolezza – e la soddisfazione – per il fatto che l’appello lanciato lunedì sera («Si è ancora in tempo per introdurre misure capaci di rafforzare l’efficacia e la credibilità della manovra») alla fine fosse stato raccolto dall’esecutivo; dall’altra, un malcelato disappunto per la scelta del governo di soffocare ogni possibilità di confronto con l’opposizione, ricorrendo al voto di fiducia.

Non solo: bisogna infatti aggiungere che permane una certa circospezione nella valutazione delle scelte effettuate dall’esecutivo, visto che il testo – a ora tarda – non era stato ancora trasmesso al Colle. E se è vero che al capo dello Stato non compete certo un giudizio di merito del provvedimento, è altrettanto vero che i tecnici del Quirinale non di rado hanno scovato in questo o quel decreto norme relative a materie che non c’entravano affatto con i provvedimenti in questione…

Al di là delle non sindacabili scelte di merito del governo, insomma, quel che certamente non è stato apprezzato dal capo dello Stato è il ricorso alla solita «tagliola» del voto di fiducia. Il governo ha motivato tale scelta con ragioni quasi tecniche: la necessità, cioè, di approvare il provvedimento in almeno una delle due Camere prima dell’importante riunione del board della Banca centrale europea previsto per domani. Non è escluso, naturalmente, che vi siano anche altre motivazioni dietro la scelta compiuta da Berlusconi (per esempio le crescenti fibrillazioni all’interno della maggioranza di governo): quel che è sicuro è che le opposizioni hanno preso assai male l’annuncio dell’ennesima fiducia. E questo, in qualche modo, rappresenta un problema anche per il capo dello Stato.

Nel suo continuo lavoro di cucitura e stimolo, infatti, Napolitano ha sovente fatto appello al senso di responsabilità delle forze di opposizione, reclamando coesione e chiamando ognuno alle proprie responsabilità. Il Pd – e Bersani in particolare – non si sono sottratti all’invito del Quirinale, pur chiarendo che l’invocato senso di responsabilità si fermava, naturalmente, sulla soglia delle scelte di merito che l’esecutivo andava compiendo. E’ evidente che il ricorso al voto di fiducia – annullando ogni possibilità di confronto – non solo vanifica i ripetuti inviti alla coesione lanciati dal Capo dello Stato, ma fornisce un potente alibi a chi ritiene che anche in momenti tanto delicati – l’opposizione debba scindere nettamente le proprie responsabilità da quelle dell’esecutivo (per esempio Di Pietro, che ieri ha annunciato l’ostruzionismo dell’Italia dei Valori nei confronti del provvedimento del governo).

Non è un buon viatico per il futuro: e considerando che è da escludere che l’emergenza economica venga risolta con la semplice approvazione del decreto in discussione, la scelta del governo di ricorrere alla fiducia rischia di render più difficili o addirittura compromettere i passi che si renderanno necessari dalla settimana prossima in poi. Per ora, in ogni caso, quel che conta più di ogni altra cosa è la risposta che arriverà stamane dai mercati. Tutta l’attenzione sarà per la Borsa e l’andamento dei listini: sperando che, fiducia o non fiducia, la manovra annunciata dal governo riesca almeno ad arginare un declino che ancora ieri sembrava inarrestabile.

La Stampa 07.09.11

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“Napolitanto rammaricato per la fiducia sul testo”, di Antonella Rampino

IL COLLE Plaude per avere fatto in fretta e attende per oggi iltesto del documento Non sarà una prova di coesione nazionale. Giorgio Napolitano, che al governo aveva chiesto di fare presto e bene, apprende da Gianni Letta che la manovra con la quale si dovrebbe salvare quel che resta della credibilità del Paese sarà varata oggi, nella sua quarta versione dal 6 agosto ad oggi, ma sarà blindata. Il governo apporrà la fiducia, su un maxiemendamento che, al momento in cui scriviamo, il Colle ancora non conosce nella versione testuale. Letta ha spiegato al Presidente che il governo ha scelto questa soluzione «per evitare ulteriori divisioni nella nostra stessa maggioranza». Una fiducia, rinunciando quindi alla partecipazione delle opposizioni, necessitata dall’urgenza: giovedì si riunisce il Consiglio della Bce, non ci sono più i tempi per la ricerca del confronto con le opposizioni e la coesione. Lo dice anche il presidente del Senato Renato Schifani, che ha fiancheggiato Napolitano nell’intento, «ho fatto tutto il possibile per una maggior condivisione, ma come segnala l’alto richiamo del Presidente della Repubblica occorre fare in fretta». Eppure, una manovra votata solo da una parte del Paese, e con rappresentanze sociali in piazza perché nel provvedimento s’è inserito un elemento non indicato dalla Bce e che rompe l’armonia tra le parti sociali appena ritrovata con l’accordo di giugno, potrebbe non bastare a rassicurare i mercati.
La rete stesa dal Quirinale a protezione dell’Italia nella più difficile emergenza dalla nascita della Repubblica è stata un lavorio di contatti e consultazioni, un’attenta analisi dei fatti ora dopo ora, minuto dopo minuto. Prima dell’ultimo allarme, dei molti da metà luglio in avanti, Napolitano aveva sentito Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia sa che la linea rossa è fissata a giovedì, quando si riunisce il Consiglio direttivo della Banca Centrale Europea. A Francoforte, capitale finanziaria di un Paese, la Germania, la cui Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli interventi a sostegno dei Paesi dell’Eurozona a rischio. Mario Draghi, col quale il contatto è costante, quotidiano, da ben prima del celebre incontro al Quirinale del 2 agosto, aveva già avvertito, e pubblicamente ripetuto, che il sostegno della Bce al debito pubblico italiano «non è per sempre». E ieri, facile supporre l’irritazione presidenziale di fronte alla Spagna che, dopo aver anticipato al prossimo novembre le elezioni e dunque il cambio di leadership politica, varato la propria manovra e costituzionalizzato il tetto al debito pubblico in tempi record e con i voti di tutto l’arco parlamentare, adesso accusa l’Italia di «aumentare la turbolenza nel mondo». E ulteriore disappunto del Presidente, attento lettore della stampa anche internazionale, vedendo il «Financial Times» che definisce la manovra italiana «un fiasco», «un gioco di prestigio», o il «Wall Street Journal» scrivere che noi teniamo «in ostaggio l’Europa», chiedendo che a Palazzo Chigi s’insedi un governo tecnico.
Temi inevitabilmente toccati nell’incontro di mezzo mattino col ministro degli Esteri, in agenda per valutazioni sulla situazione libica (del resto Berlusconi non è andato al Colle a riferire sull’importante vertice di Parigi) e sulla spinosa questione della risoluzione che si dovrà stilare all’Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese. La sintonia con Frattini è di vecchia data, e si vede il pieno concerto negli incontri internazionali, tant’è che Frattini esce dal Colle invitando i suoi correligionari di maggioranza a «prendere sul serio l’appello di Napolitano, la manovra non va blindata con la fiducia». Serve un confronto con le opposizioni propositive, aggiunge il ministro, serve soprattutto «un testo più efficace sulla parte strutturale e per la crescita». Inascoltato, esattamente come Napolitano, se non nell’appello a «intervenire sulle pensioni, e sull’Iva». E, soprattutto, subito.

La Stampa 07.09.11

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“L’ira del premier: dal Colle un intervento a gamba tesa”, di Amedeo La Mattina e Ugo Magri

«Siamo rimasti basiti». Nei piani alti del governo, riconoscono che l’intervento di Napolitano sulla manovra («servono misure più efficaci») è stato uno choc. Ancora niente, però, a confronto di quello che il Cavaliere ha passato nella memorabile notte a cavallo tra il 5 e il 6 settembre. Quando i soliti canali diplomatici l’hanno avvertito che dal Colle l’indomani sarebbe arrivato di molto peggio: una pubblica dichiarazione nella quale Napolitano avrebbe denunciato l’inerzia del Cavaliere davanti a una crisi così drammatica.

In pratica, il «de profundis» per un governo incapace di assumersi le proprie responsabilità su Iva, pensioni e rispetto degli impegni assunti con l’Europa. «Avrebbe potuto ricorrere alla moral suasion, invece Napolitano è entrato a gamba tesa», si lamentano a Palazzo Chigi. Pare certo che dietro ci fosse pure Draghi, futuro presidente della Bce, stanco di attendere quanto da due settimane aveva suggerito al governo. Sta di fatto che la minaccia dal Colle ha ottenuto il suo scopo. Berlusconi ha alzato finalmente la testa dalle carte giudiziarie, s’è attaccato al telefono, è volato a Roma dove non metteva piede da 23 giorni, ha riunito il vertice di maggioranza e il Consiglio dei ministri, tutto a tempo di record proprio per scansare i fulmini presidenziali. Dopodiché, Silvio ha avuto il coraggio di sostenere con gli amici che era tutto merito suo. «Ho pilotato io la manovra», si è vantato a sera, «è stato il sottoscritto a convincere Bossi e Tremonti». Napolitano? Sì, certo, il presidente «mi ha dato un aiuto…».

Adesso l’interrogativo è: la terza versione del decreto sarà sufficiente? Oppure l’offensiva contro l’Italia proseguirà imperterrita? Nell’entourage del premier incrociano le dita. Si attendono che la Bce, finalmente accontentata, riprenda a comprare i nostri poveri Btp. Spiegano l’ottimismo: «Lo spread viene deciso a Francoforte». Tremonti, dicono, è alquanto scettico. Anche per questo lui puntava i piedi, non avrebbe cambiato una virgola dell’ultimo decreto. Non ha detto, sia chiaro, che Draghi tira le fila di una congiura politica contro il governo; né Giulio ha indicato in Soros il manovratore dietro le quinte dell’assalto speculativo. Eppure il ministro, durante il vertice a Palazzo Grazioli, ha evocato «manine» e «manone», ambienti politico-finanziari cui non dispiacerebbe che questo governo finisse a zampe per aria. Argomenti che sul nostro premier esercitano sempre una certa suggestione. Giusto ieri gli hanno dato fastidio le critiche dalla Spagna, ma soprattutto quelle della Merkel. «A Berlino non si rendono conto che, se salta l’Italia, crolla l’euro e ci va di mezzo pure la Germania».

L’unica vera certezza (salvo dietrofront) è che «non ci sarà una terza manovra di qui a un mese», giurano tutti i protagonisti della giornata di ieri. «A questo punto basta così», sparge assicurazioni il Cavaliere. Il portavoce Bonaiuti fa due conti: «Ci chiedevano il pareggio di bilancio, ora i saldi saranno perfino meglio di quelli prefissati». Che altro possono pretendere gli investitori? Estratti del Berlusconi-pensiero raccolti: «Abbiamo raschiato il fondo del barile, tutto quello che ci era possibile fare, eccolo qui. Abbiamo tolto alla speculazione ogni alibi. Se si insiste con certe critiche, vuole dire solo che c’è una manovra contro il Paese, contro di noi». Qualunque cosa accada sui mercati, Berlusconi sa di non poter più modificare neppure una virgola, specie sulle pensioni. Bossi lo manderebbe a quel paese, la maggioranza andrebbe in briciole. L’anticipo di due anni per le lavoratrici nel settore privato è il massimo che Berlusconi è riuscito a strappare in una concitata battaglia con la Lega.

Nella telefonata con l’Umberto, lunedì sera, s’era trovato di fronte un muro. Durante il vertice di ieri idem, con l’emissario del Carroccio Calderoli che aveva sul collo il fiato del Senatùr. Nel giro leghista si narra di una telefonata ringhiosa piovuta da Gemonio a Palazzo Grazioli, «che diavolo state combinando lì?». In compenso Berlusconi ha ottenuto dalla Lega disco verde all’aumento dell’Iva. Tremonti è rimasto isolato. Si è arreso solo quando il collega di governo Frattini è uscito di mattina dal Quirinale mettendo in chiaro: «L’appello di Napolitano va preso sul serio». L’accerchiamento di Tremonti è stato completo allorché da Bruxelles ha incominciato a premere perfino Tajani, vicepresidente della Commissione Ue (messo sapientemente in moto da Gianni Letta).

Una trattativa caotica che Berlusconi tenta di minimizzare: «Confusione? Quando il governo si regge su una coalizione di partiti, non può essere diversamente». E poi, teorizza da politologo Quagliariello, «una manovra così importante nella Prima Repubblica avrebbe travolto non uno ma tre governi, mentre noi siamo ancora vivi». Ancora per quanto? Incombe sul Cavaliere lo spettro del governo tecnico, guidato da Monti, o istituzionale (l’attivismo di Schifani viene visto dai «berluscones» con crescente sospetto). Si dà coraggio il premier: «Siamo un governo legittimo, abbiamo la maggioranza nel Parlamento, nessuno può permettersi di far saltare il banco».

La Stampa 07.09.11