università | ricerca

"Sempre meno iscritti, questa università più piccola e povera", di Fausto Raciti* e Federico Nastasi**

Cresce il divario tra atenei che possono e che non possono. Ma anche tra studenti in condizione di frequentarli e quelli tagliati fuori. In questo modo è a rischio l’Italia del futuro. L’università è una delle vittime designate della politica di risanamento e del dibattito che attorno ad essa si è aperto. Dibattito in cui tutte le vacche rischiano di essere nere. Non significa che l’università di oggi sia all’altezza del compito, ma nessuno ci venga a raccontare che una politica di costante e implacabile riduzione delle risorse servirà a eliminare gli sprechi e a renderla più equa ed efficiente. Al contrario, stiamo misurando l’allargarsi del divario tra università che possono e che non possono e, soprattutto, tra studenti in condizione di frequentarla e studenti tagliati fuori dai percorsi formativi. Secondo i dati Almalaurea dal 2006 a oggi sono crollate le matricole (-9,2%) con un record al Sud dove il calo ha toccato il 19,6%. La foto di una generazione che, rinunciando agli studi, priva il Paese di risorse sui cui costruire l’Italia che verrà. A questo quesito la risposta del Fondo per il merito risulta inutile, quale merito se alla gara non tutti possono partecipare? La riduzione del FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario), finalmente denunciata anche dalla CRUI, ripropone la questione delle spese di funzionamento degli atenei e distanzia ulteriormente il nord dal centrosud. Le misure sui dottorati di ricerca, con i tagli profondi (L.133/2008) e i nuovi indirizzi (L.240), mettono a rischio la mobilità territoriale, una delle misure che ha permesso la libera diffusione delle idee e della ricerca in un Paese sempre a rischio di spezzarsi. Il drammapiù pesante riguarda forse la compressione dell’autonomia degli atenei, ben evidente nelle riforme dell’offerta formativa, col Ministro che sembra quel comandante della nave che anziché dare la rotta legge il menù di bordo: i corsi di laurea e le scuole per esistere devono solo rispondere a ferrei criteri, caselle da riempire, docenti titolari di cattedra per la natura del loro contratto e non per le loro capacità, corsi di studio accorpati per far tornare i conti. Un’università più piccola, più povera e svilita da una pesantissima burocrazia. A questo contesto vanno sommati gli anni e i soldi da destinare a master, tirocini e praticantati per accedere a un mondo del lavoro tutt’altro che ospitale. Il risultato è l’apartheid non solo generazionale, ma fondata su puri criteri di reddito. Sta ribollendo rabbia nei luoghi di vita della nostra generazione. Il difficile è che per ottenere qualche cambiamento ci servirà molta politica. La tenaglia da rompere è quella tra due alternative secche e indigeribili: una è quella offerta dal governo e dauna parte dei circuiti culturali forti e conformisti, che prevede tagli indiscriminati nel tentativo di assecondare «nel nome dei giovani» i diktat della BCE , organismo dalle passioni epistolari non assoggettate ad alcun controllo democratico; l’altra è l’offerta pericolosa di una valvola di sfogo ribellistica limitata all’espressione dello scontento. La nostra generazione, se vuole un welfare in futuro e un vivibile presente, non ha bisogno né dell’una né dell’altra,ma di riscoprire la dimensione europea sia in termini di lotta sia in termini di proposta politica. L’Europa non come vincolo esterno,ma come possibilità di curare il male provocato dalla finanziarizzazione dell’economia e non solo i suoi sintomi. L’Europa non come difesa dell’esistente ma come spazio da ripensare. Ci vorrà tempo, lo sappiamo bene. Nel frattempo ci accontenteremmo che i contribuenti più ricchi del Paese, insieme ai tanti ricchi che contribuenti non sono perché evadono, si mettessero una mano sulla coscienza e l’altra nel portafogli e, attraverso una doverosa riforma del fisco, mettessero una parte dei loro redditi a disposizione del salvataggio dell’università e della ricerca e quindi del nostro Paese.

* Segretario naz. Giovani Democratici
** Coordinatore Rete Universit. Naz.le

L’Unità 30.09.11

******

“Atenei: chimera borse di studio. Tagli, rateizzazioni, promesse”, di Mariagrazia Gerina

Crisi Università: per la riduzione dei fondi migliaia di studenti sono rimasti senza copertura. Nel bilancio statale cifre dimezzate. E le Regioni non riescono più a compensare i tagli. Si chiamano borse di studio. Dovrebbero servire a cancellare, in partenza, le disuguaglianze tra chi vuole studiare e se lo può permettere e chi altrimenti non ha i soldi per continuare gli studi. Questa è la teoria. La pratica invece fa i conti con le risorse sempre più esigue che vengono destinate per il diritto allo studio. E con ritardi, che scaricano il problema sulla spalle degli studenti. In Veneto, 4mila universitari aspettano ancora di ricevere la borsa di studio per l’anno passato. E, a questo punto, nonostante le proteste, è quasi certo che non la riceveranno più. «Quanti di loro abbandoneranno gli studi?», si domanda Leone Cimetta, coordinatore dell’Unione degli universitari di Padova. L’ateneo che vanta il maggior numero di studenti. E di esclusi. Su 5.405 aventi diritto, gli esclusi sono 2.256, mentre solo il 58,3% (3.149) ad oggi ha ricevuto la borsa. Gli studenti hanno protestato, manifestato, bussato a tutte le porte. «I soldi non ci sono e comunque non possiamo spenderli», si sono sentiti rispondere gli universitari veneti dalla giunta Zaia, che proprio come uno scolaro impreparato in questi mesi se le è inventate di tutti i colori. Anche il Patto di stabilità ha invocato. Nel Lazio, funziona diversamente. Le borse di studio vengono pagate a rate. Come le automobili. Ma anche qui: 11mila studenti aspettano ancora l’ultima rata dell’anno passato. La giunta Polverini ha promesso che entro i primi di ottobre spiegherà che fine hanno fatto i soldi. «Ma noi abbiamo già convocato una assemblea per il 4 ottobre perché abbiamo fondati timori che quelle borse non ci verranno mai pagate», spiega Elena Monticelli, la studentessa ricevuta dal presidente della Repubblica lo scorso dicembre, insieme a una delegazione di universitari. Si capisce che il ministero tardi a pubblicare i dati sul diritto allo studio relativi all’anno accademico appena trascorso. Su 180mila studenti che avrebbero avuto diritto, i soldi sono bastati solo per 150mila. E gli altri 30mila?«Da noi a Padova abbiamo organizzato degli sportelli – racconta Leone – per informare gli studenti, molti ancora non hanno ben chiara la situazione, pensano che, magari si tratta di tirare un po’ la cinghia,ma la borsa di studio prima o poi arriverà». E invece? «Invece probabilmente il prossimo anno sarà anche peggio». In effetti, fin qui – spiega Federica Laudisa, responsabile dell’osservatorio regionale per il Piemonte – gli effetti della riduzione dei fondi sono stati attenuati da una perenne sfasatura tra soldi stanziati e soldi erogati. Per cui, di fatto, gli enti per il diritto allo studio hanno finito di spendere i 246,5 milioni stanziati per l’anno 2009-10 pagando la prima tranche di borse del 2010-2011. E solo nel 2011 hanno iniziato a fare i conti con la riduzione dei fondi: più che dimezzati già nel 2010-2011, 97 milioni di euro. Per il prossimo anno, 2012-13, la cifra scritta nel bilancio dello stato è di 26 milioni. Mentre quella per il 2011-12 che deve ancora essere ripartita è risalita a quota 101 milioni dopo un lungo braccio di ferro. Basteranno a coprire almeno un numero di borse di studio pari all’anno precedente? In teoria, la cifra è di poco superiore a quella dell’anno precedente. E però non è così che funziona. Perché il fondo statale garantisce solo una parte delle risorse necessarie. Il resto è coperto, in parte dalla tassa regionale, in parte sono risorse che le Regioni individuano nel loro bilancio. Prendiamodue Regioni virtuose come il Piemonte o la Toscana, che sono riuscite fino allo scorso anno a nonescludere nessuno degli aventi diritto, che erano poco più di 11mila per la Toscana, poco meno per il Piemonte. Dei 53milioni che sono serviti a pagare tutte le borse di studio per gli atenei toscani, solo 7 li ha messi lo stato, mentre 34 sono i milioni stanziati dalla Regione e altri 12 derivano dalla tassa regionale. Nel Piemonte (dati 2009/10) il fondo statale era di 37,9 milioni (38%), le tasse 34,2 milioni, ma per garantire a tutti la borsa la Regione ha dovuto comunquestanziare 27,9 milioni (28% del totale). Ce la faranno quest’anno Regioni virtuose e no, con i tagli ai trasferimenti previsti dal governo, a coprire i buchi lasciati scoperti dagli stanziamenti statali? Oppure saranno costrette ad aumentare le tasse? La tassa toscana lo scorso anno era tra le più basse (98 euro). Nel Lazio, la tassa era di 118 euro e copriva da sola il35%delle entrate (34,9 milioni), contro i 44,9 milioni che derivavano dal fondo statale e appena20 milioni di risorse regionali. E però già quest’anno ci sono quegli 11mila studenti che attendono.

L’Unità 30.09.11