attualità, lavoro

"Val d’Aosta, il paradiso dei baby-pensionati", di Pierangelo Sapegno

Quando le cose vanno male, sono i numeri il nostro nemico. Non ce n’è mai uno che vada bene. Gli ultimi dicono che il record dei baby pensionati è della Val d’Aosta, regione autonoma, bella, pulita, mai in passivo, o quasi mai: 2213, uno ogni 57 abitanti, per una sberla che costa allo Stato 38 milioni di euro l’anno. Poi uno ascolta Giuseppe De Rita e capisce che non deve nemmeno stupirsi: «La Valle d’Aosta ha sempre vissuto, anche nella sua notevole agiatezza, su meccanismi di trasferimento di denaro pubblico. Per esempio, in Trentino Alto Adige l’economia reale è molto più forte e c’è un vasto tessuto imprenditoriale». Il fatto è che quando venivamo su per raccontarne il modello – una volta l’anno, più o meno -, trascuravamo tutti questo piccolo particolare. Nel 2000, per l’Istat, questa era la regione con il maggior reddito pro capite: il pil era pari a 47 milioni e 347 mila lire per abitante. Nel 2007, prima della crisi, la Confindustria collocava Aosta al quinto posto nella graduatoria nazionale per lo sviluppo, dopo Modena, Milano, Como e Bologna, che era già una gran bella compagnia, e sarebbe addirittura stata prima se gli indicatori fossero stati soltanto i depositi bancari, i consumi di energia elettrica e il numero di auto. Gli facevano perdere posti – ma guarda caso – il tasso di occupazione e quello di industrializzazione. Sempre nel 2007, il reddito medio per contribuente era di 18mila e 487 euro.

Oggi, se uno guarda i numeri ci rimane male due volte. Perché scopre, tanto per cominciare, che le baby pensioni distribuite dallo Stato in Valle ammontano a 18 mila e 934 euro lordi a testa, cioè a qualcosina in più – briciole – di quello che era il reddito medio pro capite prima della crisi. C’è qualcosa che non torna. O forse tutto torna. Nel frattempo, Aosta, assieme ad altre 7 regioni italiane, era uscita dalle classifiche europee del pil pro capite, scivolata dal 21˚ posto a chissà dove, proprio fuori, superata da territori polacchi, della Repubblica Ceca e persino della Romania. E’ il volto globalizzato della crisi, sarà meglio rassegnarci. Adesso, che la Valle d’Aosta sia la patria dei baby pensionati non dovrebbe essere una cosa che ci deve scandalizzare troppo. Le baby pensioni non sono mica pensioni truffa, o invalidità finte. Sono benefici ottenuti per legge. «E io», come dice una di loro, Patrizia Nuvolari, 56 anni e da 14 con l’assegno mensile dell’Inps in tasca, «sono stata costretta ad andarci. Mi diano un lavoro, e lo prendo di corsa, rinunciando alla pensione». Il problema, però, è un altro: è l’immagine che avevamo di Aosta, delle sue strade pulite attorno ai resti romani, delle sue baite e dei suoi chalet di montagna con i gerani sui balconi e la neve dei panettoni. Se anche Aosta non è più un modello del benessere, ma una patria dell’assistenzialismo, che fine faranno tutte le belle parole sugli esempi da prendere e quelli da seguire? Forse, non ne abbiamo più.

Certo è che tutte queste baby pensioni hanno una loro logica, come spiega il segretario regionale della Cgil, Domenico Falcomatà: dal 1981, la Regione ha avuto il reparto fiscale, ha goduto cioè di una forma di federalismo per cui i nove decimi dei soldi versati allo Stato rientrano nelle casse regionali. E dove lo trovi subito il lavoro dipendente che ti paga le tasse? Nel pubblico, of course. «Il dato perciò è influenzato da questa concentrazione sproporzionata di dipendenti pubblici. Anche perché bisogna aggiungere che il territorio è poco industrializzato, visto che il suo tessuto imprenditoriale si è perso negli anni ed è sempre più in crisi». E tutti gli incentivi che la Regione ultimamente sta studiando, dice ancora Falcomatà, «non sono bastati a invertire la rotta». Di fatto in Valle d’Aosta i baby pensionati sono quasi esclusivamente ex impiegati statali, che hanno goduto del permesso di uscire dal lavoro prima della riforma Amato. Sono quasi tutti concentrati al Nord. Se qui c’è la densità più alta, il numero più elevato è quello della Lombardia (110 mila), seguito dal Veneto (56 mila), dall’Emilia Romagna (52.626) e dal Piemonte (48.414). Al Sud, invece, trionfano le pensioni di invalidità: sempre assistenzialismo è.

Eppure, come spesso capita, c’è un’altra faccia della medaglia e le cose non sono sempre quello che sembrano. In questo senso, Patrizia Nuvolari è un caso emblematico. Lei ripete che è stata costretta ad andare in pensione, «perché mi avevano proposto un trasferimento che era impossibile da accettare, vivendo io da sola, con una bambina». Così, dice, ha dovuto approfittare della finestra che le veniva offerta e andarsene via, quando era sui 40 anni. «Ma ci tengo a dire che avrei lavorato ancora, e che ci rimasi malissimo. Ora prendo 600 euro al mese, non mi vergogno a dirlo. Ma se mi danno un lavoro alla stessa cifra rinuncio immediatamente alla mia pensione». Solo che nel frattempo Patrizia ha aperto un blog, che si chiama Patuasia, che critica e attacca anche duramente la casta e i suoi privilegi e la politica della Regione. E allora? «Ah!, adesso lo so che vi buttavate su questa cosa! Ma io non ho mai rubato niente. E voi non dovete prendervela con quelli che rispettano le leggi, ma con chi fa le leggi ingiuste». E’ solo che come per la Val d’Aosta si finisce sempre per trovare qualcosa che non coincide: è la contraddizione del sistema. Regala 2 lire per tenersene due milioni. E lei rinuncerebbe all’uno per cento, come ha proposto qualcuno a Roma? «Va bene, cosa cambia? Io ci rinuncio. Ma qualcun altro rinunci anche ai suoi privilegi, che sono molto più importanti». Siamo sempre lì. Da dove cominciamo?

La Stampa 30.10.11