attualità, politica italiana

"Con le urne si perdono euro e onore", di Giuliano Amato

Nel 1992 l’euro non c’era e le valute dei Paesi europei erano legate fra loro nello Sme, un sistema monetario comune che le teneva agganciate l’una all’altra entro bande di oscillazione che non potevano superare il 2,5%. Se la pressione dei mercati ne spingeva una in prossimità del margine, scattava l’obbligo di tutte le banche centrali di sostenerla ed evitarne così la fuoriuscita.

Era una garanzia molto forte, ma fummo proprio noi italiani a dover constatare per primi che non era (come pensavamo) illimitata e che dallo Sme, quindi, si poteva anche uscire.

Ai primi di settembre di quell’anno la Bundesbank comunicò alla Banca d’Italia che ormai sostenere la lira metteva a repentaglio la solidità del marco e quindi dell’intero sistema. Dal lunedì successivo, perciò, non avrebbe più servito marchi contro lire. L’Italia manifestò la sua sorpresa e tuttavia non poté che prenderne atto.

Svalutò, ma pochi giorni dopo, a causa della debolezza della sterlina (che avrebbe dovuto fare altrettanto ma non ritenne di farlo), uscirono dallo Sme prima la stessa sterlina e poi la lira, che qualche mese più tardi, sistemati i suoi conti interni, rientrò. Ora c’è l’euro e, ci dicono i giuristi, con l’euro siamo tutti più garantiti, perché dall’euro non si può uscire. L’euro infatti è la valuta non dei Paesi che l’hanno adottata, ma dell’intera Unione, tant’è che ne stanno temporaneamente fuori i soli Stati membri non ancora in grado di farne parte (più i pochissimi che per Trattato hanno ottenuto il cosiddetto “opting out”). Di conseguenza – questa è la conclusione- si può uscire dall’Unione (il Trattato ha una apposita clausola a tal fine) ma non dall’euro.

Temo che contare oggi su questa conclusione ci possa portare a scontrarci con la realtà, esattamente come capitò quando ci giunse la comunicazione della Bundesbank, che ho ricordato. Guardiamo a quanto sta succedendo in Grecia. Da tempo le banche greche sono di fatto escluse dal circuito interbancario europeo, cioè dalla canalizzazione che consente alla liquidità che si forma nelle nostre banche di scorrere fra di loro e di alimentarle in permanenza attraverso prestiti reciproci secondo le rispettive necessità. È un effetto tipico della crisi di fiducia che si è determinata e nessuno può costringere una banca a fare diversamente. Da dove vengono allora le risorse finanziarie che, sia pure in misura ridotta, continuano a circolare nell’economia greca?

Vengono dalla “Emergency assistance liquidity”, vale a dire dalla liquidità che le banche centrali da sempre immettono nella loro qualità di prestatrici di ultima istanza e che nella nostra Unione è consentita dall’articolo 123 del Trattato, a condizione che non vada direttamente a coprire debiti sovrani. Ciò significa che la Grecia vive oggi con la sola liquidità che le mette a disposizione la sua banca centrale, sino a quando ciò sarà consentito dalla Banca centrale europea. E che cosa può accadere il giorno che la banca centrale greca riceve da Francoforte una comunicazione simile a quella che ricevemmo noi nel settembre 1992? Checché diciamo noi giuristi, quel giorno la Grecia o chiude i battenti, o lascia che la sua banca centrale continui a immettere liquidità, che, comunque denominata, non sarebbe più costituita dagli euro dell’Unione.

Realismo vuole, dunque, che la conclusione che sino a poco tempo fa ritenevamo pacifica venga a dir poco emendata. Resta vero che gli Stati non possono lasciare l’euro, ma è un fatto che l’euro può lasciare gli Stati. Alle ragioni della stabilità non si comanda. Se così è, due domande si affacciano subito. La prima è se davvero dobbiamo opporci alle proposte che stanno maturando in Germania (ne discuterà in questi giorni il congresso della Cdu, il partito di Angela Merkel) per dare una regolazione all’uscita dall’euro. La seconda è se, regolazione o non regolazione, l’Italia corra il rischio, vent’anni dopo l’uscita dallo Sme, di uscire anche dall’euro.

Alle proposte tedesche avrei dato mesi addietro una risposta negativa, ora ci penserei un po’ di più. Ritengo contraria alla natura stessa dell’euro quale moneta dell’Unione la creazione di due fasce – euro debole ed euro forte – dalle quali l’Unione sarebbe spaccata. Ma di sicuro avrebbe più senso prendere atto dell’asimmetria che abbiamo creato quando abbiamo previsto che gli Stati non ancora in linea con i parametri richiesti per l’ingresso nell’euro non possano entrarvi, mentre possono invece restarci e non essere neppure sospesi i Paesi che vanno fuori linea dopo esserci entrati. È duro trovarsi soli sul marciapiede, con una valigia di cartone e alla mercé dei mercati. Ma la sola prospettiva può indurre ad adoprarsi con più efficacia per evitarlo e in ogni caso, come si è visto, può accadere anche oggi a regole immutate.

Può accadere a noi? Non ripeterò qui l’elenco delle ragioni, e delle cifre, che testimoniano della nostra distanza dalla Grecia e delle molteplici risorse di cui disponiamo per uscire dai guai in cui ci troviamo. È un elenco che tutti i nostri interlocutori, e gli stessi mercati, conoscono benissimo e che può indurli a una domanda riconvenzionale per noi ogni giorno più imbarazzante: e allora perché non vi decidete a usarle le vostre risorse, perché non riducete i vostri costi, perché non eliminate le vostre diseconomie esterne, perché non aumentate la vostra produttività, perché non abbassate più decisamente il vostro debito?

La riconvenzionale del resto è arrivata e si è tradotta nelle ben trentanove domande che al Governo italiano ha rivolto il commissario europeo agli Affari economici e monetari, Olli Rehn. Leggiamole queste trentanove domande e capiremo subito perché, nonostante le nostre differenze dalla Grecia, corriamo il rischio, al momento, di finire negli stessi guai. In Grecia il governo Papandreou, prima di dimettersi giorni fa, ha adottato e fatto approvare dal Parlamento decine di misure, tutte quelle che l’Unione europea e lo stesso Fondo monetario gli avevano via via chiesto di adottare. Ma quelle che si traducevano in norme auto-applicative (riduzioni di stipendi e aumenti di tasse) sono diventate operative, tutte le altre, e quindi le riforme più impegnative, sono rimaste sulla carta. La volontà e la capacità di “implementare” degli apparati sono state prossime allo zero e la Grecia è soltanto diventata più povera.

Ebbene, Olli Rehn, attraverso ciascuna delle sue domande, chiede all’Italia come e quando “implementerà” le sue misure. Quale risposta potrà dare l’Italia, se dopo averle approvate di gran carriera in Parlamento, lascia le misure in Gazzetta ufficiale, il Parlamento lo scioglie e si mette in campagna elettorale? È difficile per forze politiche aspramente divise sostenere insieme un governo che eviti un simile epilogo. Ma devono farlo se vogliono salvare, insieme all’Italia, il loro stesso onore.

Il Sole 24 Ore 13.11.11