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"Il merito del Pd", di Alfredo Reichlin

Questo è davvero un grande passaggio per l’Italia. Sul governo (ministri, programmi, governo di emergenza, di transizione ecc.) non ho nulla da aggiungere. Sono molto colpito dal modo come si è mosso il Presidente della Repubblica: uno statista. Propongo solo qualche riflessione sull’insieme della situazione. Prima di tutto sul ruolo che ha giocato il Pd e che è stato a mio parere molto grande.
Con serietà e pacatezza la nostra leadership ha ben compreso la grandezza del problema. Di fatto, noi stiamo pilotando una crisi che è anche la crisi di un semi-regime, durato quasi un ventennio. Qualcosa che ricorda il passaggio del 1901. Di questo si tratta. Non solo di ritrovare la fiducia dei cosiddetti mercati ma di sgombrare le macerie create anche (ma non solo) da un lungo regime populistico, guidato dall’uomo più ricco d’Italia.
Non l’hanno ancora capito quelli che adesso si stracciano le vesti perché la “politica uscirebbe umiliata dal governo dei professori” Sciocchezze. Che cos’è per costoro la politica? La politica non è quel triste gioco per cui una bella donna può indifferentemente passare dai night club alla direzione di un ministero della Repubblica e non è la formazione di una maggioranza parlamentare grazie alla compravendita di alcuni deputati. La politica è quello che abbiamo visto, finalmente, in questi giorni. È l’assumere la responsabilità di governare questo passaggio drammatico in nome della polis (la politica, appunto) e cioè degli interessi generali e della consapevolezza dei rischi terribili che corre questo Paese.
La politica è l’idea dell’Italia. Questa nostra Italia che è arrivata a un appuntamento con la sua vicenda storica. Dopotutto, una grande storia. Poche settimane fa nel salone della Banca d’Italia Gianni Toniolo ci ricordava che il reddito per abitante, al momento dell’unità d’Italia era grossomodo equivalente a quello medio attuale dell’Africa sub-sahariana. La vita media era di circa 30 anni, una famiglia operaia viveva nelle stamberghe e spendeva solo per il cibo tre quarti del suo salario. In 150 anni il reddito per abitante è aumentato di 13 volte e la vita media è arrivata a 82 anni.
Ci rendiamo conto di cosa significa soprattutto per i nostri figli e nipoti la paurosa marcia indietro che è avvenuta sotto i nostri occhi in questi ultimi anni? Sta tornando la povertà, quella vera. Il nostro debito pubblico è arrivato a 1900 miliardi di euro e su questa montagna di soldi dobbiamo pagare interessi crescenti che si mangiano le spese per i servizi sociali, l’occupazione, il sostegno all’economia reale. Per pagare gli interessi stiamo bruciando i mobili di famiglia: il capitale umano, i giovani. E ci siamo così indeboliti che i francesi si sono già comprati a prezzi di saldo la Bnl, la Parmalat, la Edison, le industrie della moda e tanto altro. La Fiat sta traslocando in America. Anche questo è il lascito del lungo regno del “bunga-bunga”. Adesso basta. Deve finire, anche a sinistra il chiacchiericcio su chi comanda e sui piccoli giochi di schieramento. Il bisogno di restituire all’Italia una dignità perduta e di impedire la bancarotta di un grande Stato che dopotutto è la settima economia del mondo, è assoluto.
È del tutto evidente che dobbiamo affrontare l’emergenza e che da qui è necessario partire. Ma per andare in quale direzione? Il bisogno che sento è questo. È rendere molto chiara la direzione di marcia e la svolta che è ormai necessaria. Basta guardare al dibattito europeo per capire che sta diventando evidente il fatto che non solo l’Italia ma l’Europa rischiano di essere travolte se il potere politico non riesce a imporre una nuova regolazione allo strapotere di una certa oligarchia finanziaria. Una finanza che si mangia l’economia reale e il capitale sociale e umano. È chiaro che il mondo non può essere governato in questo modo. Ed è per una ragione di fondo, oggettiva, non ideologica che proprio da questa stessa crisi, ormai conclamata, può nascere l’esigenza di un nuovo compromesso tra il capitalismo e la democrazia. È solo una speranza ma il grande tema del riformismo europeo è questo: la lotta per un nuovo ordine economico, ciò che fece Roosevelt.
Resta da capire se le classi dirigenti italiane e i loro intellettuali si rendano conto che non solo i poveracci ma l’insieme di quella che chiamiamo civiltà occidentale rischia di non sopravvivere se continua questa crescita spaventosa e immorale delle disuguaglianze. Il rapporto tra il salario di un operaio e i guadagni di un grande manager sono passati da un rapporto di 1 a 30 a un rapporto di 1 a 300. Stiamo molto attenti. Questa non è più solo un problema di equità, sta diventando una questione antropologica. Ce lo dicono tante cose: della massa dei giovani cacciati nel limbo di chi ha finito gli studi e non ha prospettive di lavoro, alla vergogna dei braccianti di colore ridotti nelle campagne del Sud a quasi schiavi. Anche la Chiesa si è resa conto (uso le sue parole) che siamo di fronte a gravi perdite di identità dell’individuo, sempre più indotto a consumare a debito cose di cui non ha bisogno, che perde il senso della cittadinanza, cioè dei diritti e dei doveri, e al limite non sa più distinguere tra il bene e il male.
Queste sono le macerie. Certo non è colpa solo di Berlusconi. Ma è in questo quadro più ampio che il populismo di quel signore straricco si è inserito portando al governo l’Italia delle “veline” e delle consorterie. Rimuovere queste macerie non sarà facile. Ma chi può farlo? Ed è così che arrivo a una grande domanda che mi preme assai. Io penso che proprio alla luce di questo interrogativo può (e deve) cambiare parecchio il modo di essere del Pd e la sua cultura politica ancora in formazione. Ma deve cambiare anche il modo di guardare ad esso da parte di mondi diversi dalla sinistra storica. Dovete farvene una ragione, cari amici con la puzza sotto il naso. Dovete riconoscere che per fortuna c’è Napolitano ma dovete aggiungere che per fortuna è rimasta in vita la grande tradizione democratica del vero riformismo italiano. Parlo di una idea anti-notabilare della democrazia intesa come democrazia che si organizza perché solo così essa offre alle classi subalterne lo strumento per contare, per lottare in nome della giustizia, per partecipare alla vita statale, per dare uno sbocco di governo ai movimenti.
Lo sforzo di mescolare questa tradizione con quelle del mondo cristiano e del cattolicesimo, raccogliendo anche il meglio della cultura liberale e repubblicana, è stata una grande idea. Certo non ci siamo ancora e c’è un grande lavoro da fare. Però in solo quattro anni siamo già diventati il primo partito italiano. Se ne facciano una ragione i nostri critici che affollato i talk show televisivi. La ricostruzione dell’Italia non è un problema di tecnici più bravi. Essa dipende in larga misura dalla capacità del Pd di dar vita a un nuovo blocco storico in alternativa a quello della destra. Io non dimentico che la destra ci ha governato per tanto tempo non solo perché c’è una cattiva legge elettorale ma perché i riformisti avevano perso l’egemonia culturale e sociale.

L’Unità 15.11.11