attualità, politica italiana

"La missione dei professori dare senso alla politica", di Michela Marzano

Da quando sono stati nominati, c´è il sospetto che l´Italia sia finita nelle mani di pochi tecnocrati. Ci sono addirittura dei parlamentari che ritengono che il governo tecnico sia il frutto di un vero “colpo di Stato”. Come se la crisi che si abbatte oggi in Europa avesse provocato, nel nostro Paese, il fallimento della politica. ome se, dopo anni di spettacoli, divismo, visibilità e barzellette, il solo modo per salvare lo Stato fosse quello di rinunciare alla democrazia, dove tutti possono decidere tutto, per far spazio alla tecnocrazia, dove solo pochi decidono quello che si deve o meno fare. Eppure i “tecnici” del governo Monti non sono dei tecnocrati. Perché non si tratta affatto di specialisti dei meccanismi burocratici. Al contrario. Si tratta soprattutto di professori universitari. Che per occupare il ruolo che occupano, hanno passato anni ed anni a studiare, ad approfondire le proprie conoscenze, talvolta anche ad innovare la ricerca trovando soluzioni inedite a problemi ancora irrisolti. Certo, non è più il tempo di Platone, quando sembrava ovvio affidare il governo della polis ai filosofi, gli amanti del sapere. Oggi, il sapere è complesso e molteplice. E anche se ogni tanto varrebbe la pena di consultare qualche filosofo per avere un punto di vista critico e argomentato sulla realtà, non sono loro che, per definizione, devono occupare cariche politiche di responsabilità. Oggi, le competenze di cui si ha bisogno per il bene di un Paese sono tante. Ed è importante che Mario Monti, lui stesso professore universitario, abbia fatto appello ad altri professori. Non solo perché si sta attraversando un momento di crisi che ci obbliga a trovare velocemente soluzioni credibili. Ma anche e soprattutto perché oggi la politica ha più che mai bisogno di contenuti. In democrazia, il popolo resta sovrano. È quindi giusto e necessario pensare fin da oggi alle prossime elezioni. Ma forse è giunto il momento di ripensare il modo stesso di fare politica. Non certo per proporre un´anti-politica populista e demagogica. Non certo per togliere al popolo ciò che gli spetta di diritto. Ma per dare la possibilità ai cittadini di scegliere anche sulla base del sapere e delle competenze, e non più solo in base a logiche di spettacolo o di partito. Se la politica si è progressivamente impoverita e svuotata di senso, è anche perché, per troppo tempo, si è ridotta ad un insieme di discorsi vuoti, dove quello che contava non era più tanto quello che si diceva, ma come lo si diceva. Perché la forma ha troppo spesso preso il sopravvento sul contenuto. Come se bastasse essere presenti ovunque, ripetendo sempre le stesse formule e promettendo l´impossibile per acquisire magicamente credibilità e competenze.
Ormai la gente non si accontenta più delle “parole in libertà” di cui si sono riempiti la bocca molti responsabili politici. Né di un frasario più o meno complesso che, in fondo, non vuol dire nulla. Oggi i cittadini vogliono concretezza. E il primo passo della concretezza consiste nell´essere capaci di nominare le cose in modo corretto, come direbbe Albert Camus che aveva capito perfettamente che, a forza di utilizzare male le parole, non si fa altro che introdurre nel mondo sofferenza e disordine. Allora perché lamentarsi di un governo di professori che, per mestiere, sanno bene che il punto di partenza per mettere un po´ di ordine è quello di identificare i problemi da risolvere? Perché accusarli di essere dei tecnocrati quando il loro lavoro consiste, per definizione, a cercare le soluzioni dei problemi e il modo di applicarle?
Non si tratta oggi di opporre alla spettacolarizzazione della politica la burocratizzazione delle coscienze. Non si tratta di passare da un modello in cui bastava essere presenti sempre e comunque, ripetendo una, mille e cento volte le stesse battute o invettive a seconda delle circostanze per saturare lo spazio pubblico, ad un modello tecnocratico in cui tutto si riduca ad una semplice somma di competenze. In Italia, si prende spesso come esempio da imitare il modello dell´Ena, la scuola nazionale dell´amministrazione nata in Francia nel 1945 e che, fino agli anni Ottanta, ha contribuito al successo dell´État Providence alla francese. Questo modello, però, si è col tempo incancrenito. E oggi rappresenta proprio quella tecnocrazia (la famosa énarchie) dove l´efficacia, l´eccellenza e la performance producono sempre di più dei responsabili senza immaginazione, focalizzati sulla ragione strumentale. Non è un caso che, in un mondo globale in piena trasformazione e che necessita uno sforzo di innovazione e di umiltà, l´Ena sia oggi in crisi anche in Francia. Lo stereotipo dell´énarque è quello di un “cervello fatto come si deve” ma che, nonostante tutto, non riesce più a “pensare in modo critico”. Il rappresentante di una vera e propria casta. Ora, un professore è tutt´altro. Grazie al proprio percorso universitario, sa bene il valore del sapere e l´importanza di rimettersi talvolta in discussione. I contenuti della politica sono sempre dei “problemi” che si deve poter essere capaci di formulare e di risolvere senza cadere nella trappola delle procedure prefabbricate. Chi può saperlo meglio di un docente universitario, a patto che non dimentichi le regole proprie alla politica?

La Repubblica 21.11.11