politica italiana

“Il declino di un capo”, di Filippo Ceccarelli

DI FISCHIO in fischio, dissacrazione dopo dissacrazione, fra cataratte, incidenti domestici, congiure, cambiamenti d´umore e malinconie, Bossi è sempre meno Bossi: l´idolo s´incrina, l´icona scolora la sua tinta dorata e come in un dramma elisabettiano l´osservazione spassionata del potere trova in tutto questo la conferma di una verità inesorabile. Che il carisma non è mai dato per sempre e quando comincia a fuggire, chi lo perde “sente il suo titolo cascargli addosso, come il vestito di un gigante sul nano che l´ha rubato”.E dunque: «Non ho più la Lega, non ho più la Lega, mi viene voglia di mollare tutto» l´avevano sentito ripetere qualche giorno fa a via Bellerio dietro le porte di una riunione convocata dopo che il diktat anti-Maroni, poi repentinamente contraddetto, aveva messo in moto la più prevedibile levata di scudi contro il Senatùr. Ora le immagini del palco di Milano, con quell´affollamento di malcelata discordia, dicono che la Lega ce l´ha ancora, ma certo Bossi non riesce a tenerla assieme.
O almeno: il suo popolo non risponde più ai suoi appelli. Non solo la nomenklatura si guarda bene dal manifestare segni di ravvedimento, rifiuta di mettere in scena plateali rappacificazioni, abbracci, strette di mano, ma dalla piazza lo interrompono nel mezzo del rito: chi invoca il nome di Maroni, chi lo osteggia, chi comunque fischia all´indirizzo del vecchio capo che nei momenti d´imbarazzo, da consumato comiziante quale è rimasto nonostante tutto, chiama il “Padania libera!”, o minaccia Formigoni, o si abbandona alle consuete volgarità: ma per quanto potrà andare avanti in questo modo?
Oltretutto, dopo il tempestoso congresso a porte chiuse di Varese, è la seconda volta in tre mesi che Bossi deve subire dei fischi. In quell´occasione, dopo la baraonda nella sala Arc de triomphe dell´Ata hotel, c´è chi lo vide con gli occhi lucidi. Nell´estate era dovuto andare via nottetempo dall´albergo Ferrovia, in Cadore, sempre per il rischio di contestazioni.
E allora viene da chiedersi se questi momenti di pur umanissima emotività non abbiano il potere di oscurare il ricordo di quello che il leader è stato per tanti anni e ha rappresentato per una moltitudine di fedeli; se la fatica, gli sbadigli compulsivi, l´andatura incerta, la maschera di sofferenza, la voce spesso incomprensibile non siano da mettersi in relazione con il turpiloquio, le pernacchie, i gestacci.
Ma il sospetto più grave e sempre più plausibile è che proprio le condizioni di Bossi abbiano accelerato e fatto esplodere la sorda guerra di successione che da tempo covava dentro la Lega e che nessuna autorità personale e residuale ormai potrà spegnere. L´altro giorno si è permesso di dirlo con inusitata chiarezza perfino l´eurodeputato Speroni: “Bossi non ha più l´autorità di un tempo”. Da questo punto di vista l´emergere di un´entità insieme sanitaria e cortigiana come il Cerchio magico, così come l´ansia della moglie del Capo, il destino del Trota, la defenestrazione di Reguzzoni, la probabile chiusura della Padania, i fondi d´investimento in Tanzania, il vomito polemico di Maroni, cui è prolungato il divieto di parola, e l´ambiguo barcamenarsi di quelli che l´ortodosso e purista Gilberto Oneto ha ribattezzato “i Robertidi” (Calderoli, Castelli e Cota), ecco, tutto questo, insieme agli imminenti congressi e alle frequenti telefonate da Arcore contribuisce a rendere lo scontro sempre meno ideale e al tempo stesso sempre più cupamente incentrato sul potere.
E tuttavia, riguardando l´ennesimo e crudele video di questo leone malandato che un tempo sferzava le platee e oggi parla al vento e raccoglie fischi, si coglie per un volta qualcosa di autenticamente drammatico nella sua incredulità, qualcosa che riscatta l´andazzo folkloristico e l´intonazione eroicomica che da sempre aleggiavano sopra le manifestazioni della Lega. Perché “il sole del potere è splendido, ma spesso tramonta a mezzogiorno nel pubblico disprezzo”, come dire a suon di rumorose contestazioni. Così, nel logoramento dell´autonomia fisica e nel crepuscolo del comando politico va in scena un dramma tutto personale e perfino shakespeariano – si perdoni qui l´azzardo interpretativo – per cui c´è un po´ di Macbeth, con mogli che si danno un gran da fare, un po´ di Re Lear, con sovrani stanchi e figli inadatti, e poi c´è un po´ del Giulio Cesare, con la faccenda ineluttabile del parricidio da parte chi, all´apice del successo e dell´energia, capisce che è arrivato il suo momento, e gli eventi lo portano a fare fuori colui che gli ha dato fiducia, ma ha anche abusato della sua grandezza.
Poi sì, certo che è sconveniente misurare le miserie di questo tempo con le poetiche riflessioni del Bardo. Ma la tragedia del potere, in fondo, sta esposta lì magnificamente, così come a volte pare addirittura di scovarla, anche con qualche soddisfazione, negli impicci tardo-padani. E quindi tutto torna, tutto presenta il conto, tutto si paga nel gran teatro della politica, dove il biglietto per assistere è gratis, e la lezione che vi si apprende in genere non conosce pietà.

da La Repubblica del 23 gennaio 2012

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