attualità, politica italiana

"Il «paradosso» di Silvio. Ora vuole riforme condivise", di Federica Fantozzi

Al Nazareno prima sono arrivati, pressanti e suadenti, gli ambasciatori del Pdl sulla legge elettorale. Poi, il «ragionamento sul filo del paradosso» fatto da Silvio Berlusconi a Libero, ha esplicitato l’offerta.

Un tavolo per le riforme a tamburo battente e un cambio in corsa del Porcellum. Un patto con il Pd per cambiare l’architettura costituzionale e il sistema elettorale «a trazione bipolarista». E, non c’è bisogno di dirlo, presidenzialista.

Una sorta di riedizione del «patto per l’Italia» che Berlusconi ventilava di proporre a Veltroni nel 2008. Quell’ipotesi (mai realizzata) di «coalizione trasversale» per un dialogo sui temi sensibili. Quello che Giuliano Ferrara chiamava il “Caw, Silvio più Walter”, e gli scettici temevano come «patto del Minotauro».
Quattro anni dopo, la scena si ripete. Anche se il Pd sente odore di bruciato, intuisce che il sospetto di inciucio è dietro l’angolo, e si smarca dalle tentazioni pericolose: disponibili al confronto con tutti, è la nota ufficiale del partito, senza preclusioni e se il tavolo è alla luce del sole in Parlamento.
«Il voto degli italiani si disperde in una miriade di partiti e partitini
– argomenta il Cavaliere accomunando realtà molto diverse – La sinistra di Vendola, i Grillini, IdV, Fli, Lega, Udc, Radicali». Per compiere la transizione, tocca ai due partiti maggiori prendere in mano la situazione: non per tagliare le ali, per carità, ma per “trainare” il bipolarismo fuori dalla finora con-
naturata imperfezione. E dunque, a Bersani propone di ragionare intorno alla proposta Quagliariello: nella sostanza, un proporzionale con ampi correttivi maggioritari, un mix di tedesco con soglia di sbarramento al 5% e di spagnolo con collegi molto personalizzati,metà preferenze e metà liste bloccate. Un ibrido che avvantaggia i partiti grandi senza distruggere i medi come Udc e Lega ma togliendo loro il potere di ago della bilancia. Un avviso a Casini e al Senatùr. Ma soprattutto a suoi in tumulto.
Berlusconi, per dirla alla Santanché, è finalmente «salito a bordo». Della corazzata di via dell’Umiltà, ammaccata e immalinconita dall’attesa di un voto amministrativo pronosticato come «la débacle perfetta», ma pur sempre partitone del 23%. Vuoi che abbia superato il trauma da defenestrazione da Palazzo Chigi, vuoi che abbia elaborato il lutto della rottura con Bossi, vuoi – infine – che Denis Verdini sia riuscito a fargli capire che il rischio della deflagrazione primaverile della sua creatura è a portata di mano, in ogni caso adesso Silvio c’è. A Palazzo Chigi ha fatto arrivare tutta la sua inquietudine, acuita dallo spettro del precedente Dini (nella mente del Cavaliereun vero spartiacque che il tempo non appanna),per un governo tecnico protagonista, presenzialista e attento al consenso popolare a poco più di un anno dalla scadenza della legislatura. La paura, condivisa con Alfano e Cicchitto, di trovarsi a breve con una scissione dentro casa (gli ex An: un ennesimo “partitino” con cui fare i conti) e quelli che percepisce come i veri rivali – Passera, Riccardi, Fornero – società civile scesi in campo per «salvare il Paese» chepotrebbe prendere gusto alla politica.
UN INCUBO
A Mario Monti, che sarà tecnico ma non è fesso, l’imprenditore di Arcore ha esposto quindi il suo problema di rappresentanza degli interessi della “sua” parte politica. Il premier ha ascoltato con interesse. E fatto sta che l’articolo 18 è tornato al centro della partita sulla riforma del lavoro. A ruota, Berlusconi è tornato a fare titolo di prima pagina. Così Vittorio Feltri può scrivere sul Giornale «coraggio Monti, cancella l’articolo 18 per decreto, se poi il sindacato rosso e il suo referente, il Pd, si impunteranno e faranno cadere il governo, sapremo di chi è la responsabilità». Così Belpietro può scrivere su Libero: «Il Cav si sveglia, ne avrà per tutti, Bossi compreso, ne vedremo delle belle». Al di là della stampa di centrodestra, le reazioni sono tiepide. La Russa accelera: già martedì le prime consultazioni. Un incontro a Montecitorio Pd-Pdl. Bressa, Violante e Zanda in missione. Il Pd però vedrà tutti. «Disponibili a discutere sulla riforma elettorale con tutte le forze politiche che intendono superare il Porcellum – avverte Migliavacca – Ma senza esclusioni e se il tavolo del confronto è il Parlamento». Il finiano Briguglio fa del sarcasmo sull’ex «presidente operaio» tramutatosi in «compagno Silvio». IdV denuncia la «proposta indecente»: un «accordo-truffa a due anti-piccoli». Sorniona, l’Udc per boc- ca di Cesa apprezza il Berlusconi dialogante.

L’Unità 06.02.12

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“Le manovre del Cavaliere che vuole rientrare in gioco”, di Michele Ciliberto

In Italia si stanno ponendo le basi per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica di Berlusconi. Per questo su Monti ha improvvisamente cambiato linea. Un sentiero stretto. Il Pd deve impedire che il costo della crisi si scarichi sugli strati più deboli con l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui così si salva il futuro delle «nuove generazioni». In questi giorni sono accadute cose inquietanti: le nomine alla Rai imposte da Pdl e Lega, il voto della Camera a favore di una norma contro i magistrati, gli emendamenti in Senato per frenare le liberalizzazioni. A loro volta i giornali di destra, approfittando della situazione per spingere il Pdl fuori dall’angolo, si sono messi a dare giudizi assai positivi sul governo Monti, cercando di annetterlo al loro schieramento e contrapponendolo direttamente al Pd.
Sono manovre comprensibili, come è comprensibile che Berlusconi cerchi di rientrare nel gioco politico, nei modi e nelle forme possibili. Dispone ancora di una significativa forza elettorale, né ha rinunciato a svolgere un ruolo nel nostro Paese. Non credo però che abbia reali spazi di manovra: in Italia, tutto il sistema politico è entrato in una fase di crisi e di trasformazione, e si stanno ponendo le basi anche per la nascita di una destra di tipo nuovo, estranea ai modelli della democrazia dispotica berlusconiana. Questo è il punto centrale su cui riflettere.
Una volta Andreotti disse che la Democrazia cristiana era come la cozza che pulisce e filtra l’acqua nera, alludendo alla funzione che il suo partito svolgeva impedendo che si affermasse in Italia, quale forza di governo, un partito di destra come è poi avvenuto con la fine della Dc e con l’avvento di Berlusconi. Oggi si sono riaperte le condizioni per costruire nel nostro Paese una destra di tipo moderno, europeo. Ma una prospettiva di questo tipo è legata a due elementi strettamente connessi: alla funzione che il governo Monti riesce a svolgere e, in questo quadro, al rapporto che si stabilisce fra il governo Monti e il Partito democratico.
È naturale che ci possano essere contrasti e differenze, anche profonde, di valutazione. Sarebbe singolare il contrario, così come sarebbe ingenuo sorprendersi per le prese di posizione di Monti in questi giorni sulla «monotonia» del posto fisso, sull’articolo 18, sulla necessità di procedere a un’organica, e drastica, riforma del mercato del lavoro coerente con gli orientamenti della Bce… Monti non ha mai nascosto queste sue posizioni: i governi «tecnici» non esistono; sono sempre, direttamente e indirettamente, espressioni di forze sociali ed economiche, di interessi, e su questi basano la loro forza e anche il loro consenso.
Né è immaginabile che il Pd non fosse consapevole di questo e della direzione che Monti avrebbe dato al suo governo. Per senso di responsabilità ha deciso di rinunciare alle elezioni e di sostenere la nascita di un nuovo governo, con il mandato e questa è stata la ragione fondamentale della sua scelta di portare il Paese fuori dalla crisi in cui era precipitato, sia per la situazione internazionale che per responsabilità specifiche del governo Berlusconi.
Monti e il Pd vengono entrambi da molto lontano (come si sarebbe detto una volta), né è facile o scontata la loro collaborazione. Ma essa è fondamentale, in questo momento, sia per dare una prospettiva all’Italia sia per mettere su nuove basi l’intero sistema politico. E tanto più essa sarà feconda quanto più il Pd farà sentire la sua forza cercando, senza venir meno alla propria responsabilità nazionale, di far in modo che il costo della crisi e del suo superamento non si scarichi sugli strati più deboli e sulle classi lavoratrici sfruttando l’argomento, in larga parte retorico, secondo cui in questo modo si salva il futuro delle «nuove generazioni».
Il Pd deve dire, giorno dopo giorno, che la posta in gioco è altissima; deve convogliare intorno a sé tutte le forze che vogliono riformare in senso progressista questo Paese; deve rendere chiaro che siamo in una situazione eccezionale, che richiede sforzi eccezionali; deve spiegare i motivi per i quali sostiene questo governo, impedendo che esso faccia scelte conservatrici.
Non è una strada facile né lineare, ma è l’unica che oggi si possa seguire se si vuol dare una prospettiva all’Italia, ponendo su nuove basi il nostro sistema democratico e costruendo un bipolarismo che non si risolva, come è avvenuto con Berlusconi, nella rinascita del nostro vecchio, e tradizionale, trasformismo.
Come dicevano gli antichi, il futuro è sulle ginocchia di Giove. Ma due cose appaiono certe: nonostante le avances dei suoi «trombetti», Berlusconi non ha niente a che fare con tutto questo. Una nuova storia potrà nascere solo se Monti e il Pd riusciranno a trovare un «punto dell’unione», riconoscendo reciprocamente le loro ragioni.

L’Unità 06.02.12

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“Berlusconi, contrattacco per smarcarsi dalla Lega”, di UGO MAGRI

Berlusconi scodella in un’intervista (a «Libero») quanto andava sostenendo da qualche giorno nel conciliaboli di partito, con tutti che gli dicevano «Silvio, vacci piano con questi discorsi…». Piano, perché il Cavaliere è arrivato alla convinzione che la salute della Repubblica passi attraverso un’intesa tra Pdl e Pd. Vale a dire con gli odiati «comunisti» per i quali prova adesso una sorta di innamoramento. Non è la prima volta. Anche nel 2006, subito dopo la striminzita vittoria elettorale di Prodi, Berlusconi aveva teso la mano, salvo ritirarla due anni dopo, quando in sella ritornò lui. La novità dell’intervista, raccolta da Salvatore Dama, consiste nel tono alto, quasi una palingenesi per la democrazia italiana, tale da far esclamare l’exministro Rotondi: «Berlusconi ragiona da statista!». Il senso è: governare con queste regole è una tragedia, quindi «tornare a Palazzo Chigi con l’attuale architettura istituzionale sarebbe inutile»; meglio lanciare in pista Alfano, «giovane bravissimo». Il dialogo con Bersani & C serve a rimettere il Paese sulle gambe, «bisogna lavorare con loro sulle riforma istituzionale». Anche sulla giustizia? «Perché no», conferma Berlusconi, «in fondo 40 loro deputati hanno votato per la responsabilità civile dei magistrati…». E’ uno scenario da «governissimo»: non adesso, perché alla guida del governo c’è Monti, il quale «è molto bravo». La prospettiva rigurda un domani ancora tutto da costruire. E non a caso la precisazione «soft» messa a punto da Bonaiuti, portavoce del premier, ridimensiona l’intervista a ragionamento «sul filo del paradosso, proiettato verso un futuro non facilmente prevedibile». Insomma, nulla che riguardi il presente.

In verità, un riscontro con l’oggi ci sarebbe. Berlusconi indica nella legge elettorale il terreno su cui «il dialogo non può non essere col Pd». Perché i due partiti più grossi, insieme, possono rimettere tutti gli altri al posto loro. Attualmente il voto degli italiani «si disperde tra una miriade di sigle» che elenca: la sinistra radicale di Vendola, i grillini, Di Pietro, i Radicali, Fini, l’Udc di Casini, la Lega… Tutti guastafeste che confondono le idee alla gente, difatti «il 46 per cento non sa chi votare e se andare a votare». Per questo, butta lì, «sarebbe opportuno alzare la soglia di sbarramento». Berlusconi la immagina parecchio in alto; talmente lassù, che nemmeno Casini ci potrà arrivare.

I centristi dovrebbero preoccuparsi, invece col segretario Udc Cesa rispondono un filo sfottenti (bene, bravo, finalmente pure il Cavaliere «capisce che i comunisti non esistono più»). Sono sereni in quanto Bersani non ha intenzione di reggere il sacco all’uomo di Arcore. Il segretario Pd è già di suo parecchio nervoso per le «provocazioni» subite in materia di Rai e di giustizia, ieri ha invitato il Pdl «a darsi una regolata». Addirittura, l’uscita di Berlusconi pare abbia permesso a Bersani di guadagnare punti con Casini promettendo che la riforma elettorale sarà rispettosa del Terzo Polo, con cui il Pd si vorrebbe alleare. Cicchitto, capogruppo berlusconiano alla Camera, è corso ai ripari sostenendo che pure il Pdl vuole tanto bene ai centristi, con loro vorrebbe costruire addirittura un soggetto politico insieme. Ma l’intervista a «Libero» rischia di danneggiare pure l’iniziativa importante che verrà sviluppata in settimana da Quagliariello e da La Russa: vere e proprie consultazioni sulla riforma del Porcellum, a partire da domattina con la Lega e nel pomeriggio con il Pd. I due esponenti Pdl non sottoporranno alcuna proposta specifica, tenendo la porta aperta a tutte le soluzioni, pur privilegiando il modello spagnolo. Se sotto sotto puntavano a qualche intesa privilegiata con il Pd, in danno di tutti gli altri, Berlusconi ha reso scoperto il gioco. A questo punto nessuno ci cascherà più.

La Stampa 0.02.12

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“Il Cavaliere riapre i giochi”, di MARCELLO SORGI

Una novità imprevista si affaccia nel quadro politico congelato dal governo Monti: Berlusconi non sta pensando a restaurare l’asse con la Lega, ma a tentare l’accordo con il Pd su una nuova legge elettorale. È il Cavaliere stesso a dirlo in un colloquio con Libero , mentre dal Giornale Giuliano Ferrara gli suggerisce di trattare a tutto campo, mettendo in conto anche la possibilità di una sistema maggioritario a doppio turno come quello francese. Le conseguenze di una simile riforma sarebbero di capovolgimento della tendenza considerata al momento più diffusa: mentre infatti in molti sono disposti a scommettere che la conclusione della legislatura segnerà, con o senza la riforma, la fine dell’assetto bipolare che ha caratterizzato la Seconda Repubblica, da un accordo PdlPd, sia il bipolarismo, sia i due partiti maggiori, uscirebbero molto rafforzati. Che poi Berlusconi sia disposto a spendersi fino in fondo per limitare le prospettive del Terzo polo e che il Pd sia in grado di mettere da parte una volta e per tutte l’antiberlusconismo pregiudiziale che, a parte la Bicamerale, lo ha sempre caratterizzato, per trattare con il Cavaliere, è ancora tutto da vedere.

Prove di intelligenza con il nemico sono in corso da un po’ al Senato e alla Camera. Ma risultati concreti ancora non se ne sono visti.

La ragione di queste difficoltà è presto detta: i partiti italiani da tempo non sono più in grado di trattare in modo pragmatico su singole issues, come avviene in tutte le democrazie occidentali, senza rimettere in discussione il resto. Per fare solo un esempio recente, in Inghilterra dopo le ultime elezioni politiche che non avevano sancito nessun vincitore, i conservatori di Cameron e i lib-dem di Clegg hanno formato un governo di coalizione basato anche sull’impegno reciproco di riformare il sistema uninominale maggioritario secco, che non sembrava più garantire l’alternanza tra laburisti e tories. Sottoposta a referendum, questa eventualità è stata scartata dagli elettori, senza che poi per questo si aprisse una crisi di governo. Una cosa del genere da noi sarebbe impensabile: e la vera ragione per cui la Lega minaccia di far cadere la giunta della Regione Lombardia in questi giorni, non è tanto il sostegno dato a Monti da Berlusconi mentre il Carroccio passava all’opposizione. Ma appunto il rischio, inaccettabile per Bossi, che all’ombra di questo governo Berlusconi trovi un’intesa con il Pd per cambiare la legge elettorale.

I referendum elettorali bocciati il mese scorso dalla Corte Costituzionale avrebbero potuto costringere tutti a una trattativa più serrata, essendo scontato che se fossero stati ammessi la maggioranza degli elettori avrebbe votato a favore dell’abrogazione dell’attuale contestatissimo Porcellum. Adesso invece i partiti si trovano nella scomoda posizione di temere, ciascuno per conto suo, che gli altri si mettano d’accordo a proprio discapito. Di qui la riapertura di un gioco in cui ognuno ha almeno due possibilità di scelta. E infatti, assodato che Berlusconi, per chiudere con il Pd, dovrebbe apertamente rompere con la Lega, la stessa cosa vale per i rapporti tra Bersani e Casini. Al Senato infatti (dove, sia detto per inciso, giacciono una quarantina di diverse proposte di riforma elettorale) l’ala veltroniana che fa capo a Morando, Tonini e Ceccanti ha un discorso aperto con il vicecapogruppo del Pdl Quagliariello. Obiettivo: salvare a qualsiasi costo il bipolarismo, per non consentire il propugnato (dai terzisti) ritorno a una riedizione del centrismo democristiano. Mentre alla Camera Violante (non più parlamentare, ma ancora autorevolmente in campo su questa materia), Franceschini e Bressa trattano più volentieri con Casini su un sistema di tipo tedesco o spagnolo (proporzionale ma anche bipolare), valutando in questo caso, non solo le regole elettorali, ma anche la possibilità di un alleanza tra Terzo polo e centrosinistra per il prossimo governo. Inoltre Franceschini ha avanzato la proposta cosiddetta «del proporzionale per una volta sola»: eleggere proporzionalmente, senza alcuna limitazione come ai tempi della Prima Repubblica, un Parlamento costituente che si incarichi una volta e per tutte della riforma della Costituzione, rinviando a subito dopo la gara, con regole elettorali da stabilirsi, per chi dovrà governare il Paese.

C’è dunque una complicata antologia di proposte, di fronte alla quale non c’è dubbio che la proposta di Berlusconi sposti in avanti la discussione. Se davvero, come dice, il Cavaliere non si sente più vincolato all’asse con Bossi (che d’altra parte ripete la stessa cosa), e se è disposto a trattare senza pregiudiziali con il Pd, approfittando del comune sostegno al governo Monti che lo pone in una posizione meno antagonistica rispetto a Bersani, la riforma, da improbabile che era, diventa possibile. E non perché i due maggiori partiti debbano farla necessariamente nel loro interesse e contro quello di tutti gli altri, a cominciare dal Terzo polo. Ma al contrario perché, se Pdl e Pd sono in campo, e prendono in considerazione un accordo diretto, anche gli altri devono necessariamente darsi una mossa.

Da questo punto di vista, il sistema francese a doppio turno, da sempre scartato in Italia, vuoi, a suo tempo, per le riserve democristiane, vuoi, più di recente per i timori della destra (entrambe ritenevano che la scelta secca incoraggiasse di più la maggioranza di elettori moderati a manifestarsi), da implausibile che era, è destinato a diventare almeno un buon argomento di discussione. Nel primo turno, infatti, contiene un buon tasso di proporzionale (tutti o quasi tutti i partiti possono presentarsi e le intese locali diventano necessarie per un’equilibrata rappresentanza parlamentare). Nel secondo turno costringe ad alleanze trasparenti, che difficilmente possono essere capovolte con il trasformismo o soggette al ribaltonismo.

Una cura possibile per le più recenti e insidiose malattie italiane, che nell’ultima legislatura, non va dimenticato, sono riuscite ad atterrare anche una maggioranza fortissima come quella (ex) di Berlusconi. Il cui impegno diretto nella trattativa, tuttavia, non è detto serva a sbloccare la discussione. La politica italiana, si sa, a volte preferisce convivere con i suoi mali. O peggio ancora, sopravvivere grazie ad essi.

La Stampa 06.02.12