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"Lo Stato del buon senso", di Michele Brambilla

Abituati come siamo a ragionare più con la pancia che con la testa, anche sulla questione delle tasse stiamo passando rapidamente da un estremo all’altro. Fino a pochi mesi fa, la categoria dei piccoli imprenditori era vista in blocco come un’associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale. Quando si diceva «piccolo imprenditore», l’esemplare tipo che veniva alla mente era un personaggio del cabaret, il Marco Ranzani di Cantù che parcheggia il Cayenne in seconda fila e denuncia nel 730 poche centinaia di euro di reddito. Fabbrichetta era sinonimo di furbetto. Non parliamo poi dei commercianti: la Guardia di Finanza non ha mai goduto tanta popolarità come nei giorni dei blitz a Cortina, Courmayeur, Capri e così via. Ma non appena sui media ha cominciato ad avere un po’ più di spazio l’epidemia di suicidi, siamo passati dall’indignazione alla commozione. L’associazione per delinquere è diventata di colpo quella Spectre statale Agenzia delle entrate, Equitalia eccetera – che accerta, contesta, esige.

E i piccoli imprenditori, le partite Iva e così via si sono trasformati immediatamente da ladri in «tartassati», secondo la definizione di un celeberrimo film di Totò. Possibile che in Italia sia sempre tutto bianco o tutto nero? Possibile che non si possano cogliere le sfumature, e capire che la vita non è un film con i buoni e i cattivi? Bastava un minimo di buon senso, prima, per capire ad esempio che i piccoli imprenditori non sono dei farabutti, ma una delle categorie effettivamente meno tutelate dal «sistema». Il piccolo imprenditore è uno che rischia i propri capitali, che non ha alcun paracadute quando gli affari vanno male, che non può contare su una giustizia civile che assicuri velocemente la riscossione dei crediti, che spesso viene pagato con mesi o anni di ritardo dalla pubblica amministrazione e che sicuramente è gravato da un peso fiscale eccessivo, a volte paralizzante.

Ma basterebbe un minimo di buon senso, ora, anche per distinguere chi è davvero in difficoltà per la crisi da chi pretende di continuare a beneficiare del Bengodi e dell’impunità dei tempi d’oro. Spiace dirlo, ma fra i protagonisti delle clamorose proteste di questi giorni c’è anche chi fabbricava fatture false e chi non pagava tasse chieste a tutti gli italiani (e non solo ai piccoli imprenditori) come il banalissimo canone della Rai. Ed è francamente inquietante che ieri un ex ministro abbia fatto visita in carcere, assicurandogli a nome della Lega la piena assistenza legale, a un uomo che ha tenuto in ostaggio, armi in pugno, persone inermi in un ufficio pubblico. Non è facendo un martire dell’imprenditore bergamasco Martinelli che si serve la causa della piccola impresa.

Sempre ieri a Bologna, alla manifestazione organizzata dalle vedove degli imprenditori suicidi, circolavano t-shirts con la scritta «Le tasse sono un furto». Sono il segno di un modo di pensare molto diffuso, che in Italia ha prosperato a lungo ed è fra i responsabili principali della crisi attuale. Se oggi lo Stato si sta facendo gendarme – e se tanti arrivano al suicidio – è anche perché per troppi anni c’è chi ha lasciato che a pagare le tasse fossero sempre gli altri.

La Stampa 05.05.12