economia, partito democratico

«Fassina: ora una svolta Il governo deve rinviare il sì al “Fiscal compact. E rallentare il processo-riduzione del deficit», di Fabio Martini

Il primo, tangibile rimbalzo in Italia della vittoria socialista in Francia si può misurare attraverso le parole di Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, che non si limita a compiacersi per la vittoria di Hollande, ma si spinge oltre: «A questo punto credo che il governo italiano debba sintonizzarsi sulla novità francese, disponendosi, da una parte a rinviare l’approvazione in Parlamento del Fiscal compact, dall’altra rallentando il processo verso la riduzione del deficit».
Parole impegnative ma meditate quelle di un raggiante Stefano Fassina, coriaceo assertore di una linea di sinistra dentro il Pd, ma anche parole destinate ad aprire qualcosa più di un dibattito accademico.

Era da 23 anni che un socialista non conquistava l’Eliseo: che segno è?
«E’ il segno che si riapre una prospettiva progressista in tutta l’area Euro e cambia l’agenda in Europa. Anche alla luce dei risultati in Grecia».

Della piattaforma di sinistra con la quale Hollande è riuscito a vincere, c’è qualcosa che può essere importato in Italia?
«Una piattaforma di buonsenso più che di sinistra. Esce battuta la linea della cieca austerità portata avanti dalla Bce che sta portando tutti a fondo e dunque va “importata” la linea opposta, quella che potrà salvarci dal naufragio. E d’altra parte non si capirebbe l’endorcement a favore di Hollande da parte del Financial Times e di così tanti interlocutori non progressisti».

I socialisti francesi sono i più «conservatori» della tradizione e ora anche i più vincenti: cosa importerebbe delle loro ricette di politica interna?
«La concezione che loro hanno del rapporto tra austerità, diseguaglianza e crescita e su questo c’è piena sintonia con il Pd e gli altri partiti progressisti europei».

Ma il tema dell’austerità in realtà non è più italiano che francese?
«No, non è così. La recessione si sta allargando a macchia d’olio in tutta Europa e lo stesso Sarkozy si era impegnato ad adottare manovre correttive. E in ogni caso il fattore più rilevante è che cambia l’agenda in Europa».

Cambia anche vista da Palazzo Chigi?
«Certamente. Occorre che l’Italia si predisponga a rinviare l’approvazione del Fiscal compact».

Ma l’Italia non è la Francia…
«Già, ma il rinvio è stato chiesto anche dalla Spd e i socialisti francesi hanno già detto che non sono disponibili ad una semplice ratifica prima della verifica da completare nel corso del vertice europeo di fine giugno. Anche noi dovremmo rinviare l’approvazione a dopo l’estate, dopo che saranno stati fatti significativi passi avanti in direzione dello sviluppo. Ma serve anche altro. Va rivisto, subito, il percorso verso la riduzione del deficit, in modo che almeno un punto del Pil sia indirizzato in spese per investimenti già nel 2012».

Vuol dire che finora avete sostenuto Monti col naso turato?
«Monti si è trovato con un cappio al collo, “preparato” da Berlusconi e le scelte sbagliate di politica economica sono state il prezzo politico per tornare a sedersi con la Merkel. Ma ora i tempi sono maturi per una svolta in tutta Europa».

E’ Bersani l’Hollande italiano?
«Certo. Lui ha vinto senza leaderismi, con una grande squadra, un partito vero e l’investitura delle Primarie».

da La Stampa

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«Finalmente la sinistra ripudia il liberismo. Ora una nuova agenda», di Ronny Mazzocchi

SARÀ NECESSARIO ANCORA QUALCHE GIORNO PER CAPIRE COSA CAMBIERÀ IN EUROPA DOPO QUESTO CURIOSO ELECTION DAY. Per varie ragioni sono infatti andate al voto Italia, Francia, Germania e Grecia, a cui bisogna aggiungere il grande successo del Partito laburista inglese alle elezioni amministrative della scorsa settimana. Ma un dato sembra ormai certo: la sinistra europea, dopo una lunga fase di appannamento che l’ha condotta quasi ovunque all’opposizione, è tornata in campo. Lo sta facendo con una ritrovata capacità di proporre un’analisi autonoma non più presa a prestito dalla cultura neoliberale. Termini come uguaglianza, diritti e lavoro sono tornati prepotentemente di moda nel vocabolario dei progressisti, dopo essere stati ingiustamente marginalizzati se non addirittura banditi durante i ruggenti anni Novanta. Ma è soprattutto nel campo delle politiche europee che osserviamo le maggiori discontinuità rispetto al recente passato.
La sinistra sembra essersi finalmente emancipata da quell’asfissiante visione tecnicistica che aveva ridotto l’europeismo alla mera esaltazione del mercato unico, della competitività e dei vincoli contabili, per proporsi come forza garante di un rilancio di quel progetto comunitario affogato nelle paludi dell’austerità e dell’egoismo nazionale in cui è stato condotto dai partiti conservatori nell’ultimo decennio. La prova elettorale di questi giorni e soprattutto l’esito delle presidenziali francesi misurerà la capacità di trasformare questa ritrovata autonomia culturale in un credibile progetto politico.
Sarà innanzitutto necessaria una grande lucidità nell’individuare, nel quadro più generale di una riforma delle istituzioni comunitarie, politiche e azioni capaci di portare al più presto il vascello europeo fuori dalla tempesta. Se tutti ormai parlano di politiche per la crescita come panacea di tutti i mali, bisogna prendere sul serio l’ammonimento posto ieri da Leonardo Domenici su queste pagine, ovvero che ad una nuova fase di sviluppo bisogna arrivarci vivi e questo non è affatto scontato.
Se è dato per acquisito almeno fra i progressisti che la causa della crisi in cui ci troviamo non è l’eccesso di indebitamento pubblico, ma il gravissimo dissesto del sistema finanziario privato, è evidente che il suo risanamento è condizione necessaria e imprescindibile per arrestare la caduta della produzione e dell’occupazione. Il risanamento richiederà varie forme di intervento pubblico, dall’assorbimento dei debiti privati non più esigibili alla ricapitalizazione di alcune banche private. Ma affinché la riparazione tenga, è necessario che ai titoli pubblici dei Paesi dell’euro venga restituita affidabilità e qualità finanziaria per tutto il tempo necessario agli investitori privati per ricostruire la loro piena operatività sui mercati. Il portafoglio di qualsiasi investitore, infatti, richiede la presenza di una solida base di attività prive di rischio, senza le quali non è possibile nemmeno calcolare in modo credibile i prezzi e quindi i temibili spread. Nella vita economica, però, non c’è niente di assolutamente privo di rischio ed è necessario inventarlo attraverso quello che Paul Samuelson riferendosi alla moneta chiamava «espediente sociale».
A questo scopo occorre creare quella base finanziaria pubblica priva di rischio, sottraendola dalle forze di mercato a partire innanzitutto dalle agenzie di rating e sottoponendola a un regime di prezzi amministrati dalle istituzioni responsabili della stabilità monetaria e finanziaria. Gli strumenti tecnici ci sono e varie sono le proposte in campo, prima fra tutte la messa in comune di parte del debito pubblico europeo con meccanismi di compensazione capaci di non penalizzare i Paesi virtuosi. L’importante è scegliere in fretta, già nelle prossime settimane. Senza questo importante passo, sia le manovre fiscali di consolidamento dei conti pubblici che eventuali piani di rilancio della crescita saranno inutili. Mettere in cima all’agenda questo tema può essere il primo segnale che, con i progressisti al governo dell’Europa, l’uscita dalla crisi non sarà più soltanto uno slogan con cui aprire i resoconti ufficiali dei meeting europei.

da l’Unità