ambiente, attualità

"I contadini e gli operai della mia terra ferita", di Michele Serra

La sola cosa buona dei terremoti è che ci costringono, sia pure brutalmente, a rivivere il vincolo profondo che abbiamo con il nostro paese, i suoi posti, la sua geografia, la sua storia, le sue persone. Appena avvertita la scossa, se non si è tra gli sventurati che se la sono vista sbocciare proprio sotto i piedi, e capiamo di essere solo ai bordi di uno squasso tremendo e lontano, subito si cerca di sapere dov´è quel lontano. e quanto è lontano, e chi sono, di quel lontano, gli abitanti sbalzati dalle loro vite. Si misurano mentalmente le pianure o le montagne che ci separano dal sisma. Prima ancora che computer e tivù comincino a sciorinare, in pochi minuti, le prime immagini, le macerie, i dettagli, i volti spaventati, la nostra memoria comincia a tracciare una mappa sfocata, eppure palpitante, di persone, di piazze, di strade, di case. Una mappa che è al tempo stesso personale (ognuno ha la sua) e oggettiva, perché è dall´intreccio fitto delle relazioni, dei viaggi, delle piccole socialità che nasce l´immagine di un posto, di un popolo, di una società.
Leggo sul video Cavezzo e subito rivedo un casolare illuminato in mezzo ai campi in una notte piena di lucciole, ci abitava e forse ci abita ancora un mio amico autotrasportatore, Maurizio, non lo sento da una vita, cerco il suo numero sul web, lo trovo, lo faccio ma un disco risponde che il numero è sconnesso.
A Finale Emilia viveva, e forse vive ancora, la Elia, la magnifica badante che accompagnò mia nonna alla sua fine. Era nata in montagna, nell´Appennino modenese, faceva la pastora e governava le pecore, scendere nella pianura ricca a fare l´infermiera era stato per lei, come per tanti italiani nella seconda metà del Novecento, l´addio alla povertà, l´approdo alla sicurezza: ma ancora raccontava con gli occhi lucidi di felicità di quando da ragazzina cavalcava a pelo, galoppando sui pascoli alti. Molti degli odierni italiani di pianura hanno radici in montagna. L´Appennino ha scaricato a valle, lungo tutta l´Emilia, un popolo intero di operai e di impiegati. La sua popolazione, dal dopoguerra a oggi, è decimata: dove vivevano in cento oggi vivono in dieci, come nelle Alpi di Nuto Revelli.
Andai a trovarla a Finale, tanti anni fa, per il funerale di suo figlio, era estate e l´afa stordiva. Le donne camminavano davanti e gli uomini dietro, si sa che i maschi hanno meno dimestichezza con la morte. Non c´erano ancora i navigatori e arrivai in ritardo, in quei posti è molto facile perdersi, le strade sono un reticolo che inganna, è un pezzo di pianura padana aperto, arioso, disseminato di paesi e cittadine, ma non ci sono città grandi a fare a punto di riferimento (anche questo, penso, ha contributo a limitare il numero delle vittime). Se sei un forestiero e l´aria non è limpida, e non vedi l´Appennino che segna il Sud e – più lontano – le Alpi che indicano il Nord, ti disorienti, non sai più dove stai andando. Forse da nessun´altra parte la Pianura Padana appare altrettanto vasta e composita, non si è lontani da Modena, da Bologna, da Mantova, da Ferrara, ma neppure si è vicini. Anche per questo ogni paese ha forte identità: non è periferia di niente e di nessuno. Uno di Finale Emilia è proprio di Finale Emilia, uno di Crevalcore proprio di Crevalcore.
Crevalcore è bellissima, è uno di quei posti italiani dei quali non si parla mai, una delle tante pietre preziose che ignoriamo di possedere. La struttura è del tredicesimo secolo, pianta quadrata, città fortificata. Ci andai molto tempo fa per un dibattito, cose di comunisti emiliani, ex braccianti e operai che ora facevano il deputato o il sindaco e discutevano di piani regolatori ma anche del raccolto di fagiolini, facce comunque contadine con la cravatta allentata, seguì vino rosso con grassa cucina modenese perché Crevalcore è ancora in provincia di Bologna, l´ultimo lembo a nord-ovest, ma è a un passo da Modena, e dunque tigelle con lardo e aglio.
Non riesco a ritrovare, di quei posti, un solo ricordo che non sia amichevole, socievole, conviviale. Non è vero che è la natura contadina, ci sono anche contadini diffidenti e depressi. È piuttosto l´equilibrio fortunato, e raro, tra benessere individuale e vincoli sociali, sono paesi di volontari di ambulanza e di guidatori di fuoriserie, di bagordi in discoteca e di assistenza agli anziani.
La parola “lavoro”, da quelle parti, è diventata una specie di unità di misura generale: li avrete sentiti anche voi, gli anziani, dire ai microfoni dei tigì “mai visto un lavoro del genere”, il lavoro cattivo del terremoto. Come fosse animato da uno scientifico malanimo contro il luogo, ha colpito soprattutto i capannoni industriali, le chiese e i municipi. E quei portici, quei fantastici luoghi di mezzo tra aperto e chiuso, con le botteghe e i caffé, che sfregio vederli offesi, ingombri di macerie e sporchi di polvere. Sono stati colpiti, come in un bombardamento scellerato, tutti i luoghi dell´identità e della socialità. La fabbrica e la piazza, che nell´Emilia rossa sono quanto resta (molto) di un modello economico che ha prodotto meno danni che altrove. Vorticoso come in tutto il Nord, con qualche offesa all´ambiente come in tutto il Nord, con qualche malessere (le droghe, lo smarrimento, la noia) come in tutto il Nord, ma con una sua solidità, un suo equilibrio, una ripartizione intelligente tra industria e agricoltura, tra acciaio e campi.
A proposito, chissà se ha subito danni lo splendido museo Maserati che uno dei fratelli Panini ha eretto a Modena all´interno della sua azienda agricola. Lamiere lucenti in mezzo alle forme di parmigiano biologico (come quelle che la televisione mostra collassate, e sono un muro portante anche loro) e l´odore del letame che lega tutto, fa nascere tutto. I muggiti delle mucche, in mancanza di meglio, per simulare il rombo del motore. Per quanto il terremoto abbia fatto “un lavoro mai visto”, il lavoro di quei padani di buon umore (quelli di cattivo umore, si è poi visto, sono stati una novità perdente) rimetterà le cose a posto, prima o poi. Quando tutto sarà finito, i morti sepolti, i muri riparati, e i visitatori non saranno più di intralcio ai soccorsi, andate a Crevalcore, e ditemi se non è bella.

La Repubblica 30.05.12

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“Quei vecchi sperduti nella giungla di macerie”, di Jenner Meletti

FORSE l´epicentro è qui, attorno a questo tavolino di plastica rossa. Un cartello, scritto a mano, spiega che qui ci sono gli «elenchi delle persone trovate e della persone da cercare». Il terremoto uccide, ferisce e fa anche perdere la testa. «Sono già state portate da me almeno dieci persone – dice Monica Benati, funzionaria del Comune, ora seduta al tavolo – che non sapevano più dov´erano e chi erano».
«Anziani, soprattutto. Sono scappati di casa dopo la scossa e poi si sono persi in mezzo a una giungla di macerie e di sirene». Qualcuno li ha presi per mano, li ha accompagnati al tavolo rosso, nel prato della scuola media diventata il nuovo municipio. «Avevano perso ogni punto di riferimento: dove c´era il duomo ci sono solo macerie, i bar sono chiusi, il forno è crollato. Per questi anziani – ma c´erano anche persone con meno anni – è stato come camminare nella nebbia. Li abbiamo dissetati e portati alla mensa, e abbiamo cercato per loro un posto sicuro, lontano da qui».
È però difficile andare «lontano» e fuggire da un sisma che sembra avere preso il galoppo verso paesi e città che prima avevano avuto qualche crepa e che adesso sono diventati «zona rossa». Inizia a Cavezzo, questo che purtroppo è il secondo viaggio nel cuore del terremoto, otto giorni dopo quella sembrava essere la sola «grande scossa». E invece arriva alle 9 del mattino, il nuovo colpo di maglio che scuote la terra. Il sindaco, Stefano Draghetti, ha un occhio pesto. Si è preso un calcinaccio mentre usciva dal Comune, che è nuovo e sembrava essere agibile. «Cavezzo è un paese morto, devo fare l´evacuazione». Chiama i vigili del fuoco. «Staccate il gas, ma lasciate la luce elettrica, altrimenti stanotte si morirà di paura». Quando mancano cinque minuti all´una, un altro colpo. La grande ruspa che è in via Cavour sembra un giocattolo. Sobbalza, salta e a destra e sinistra. Il boato del terremoto si confonde con quello dei crolli. Altre tre case, dopo quelle cadute alle 9, si spaccano in via Primo Maggio.
«Sono morti tre operai nei capannoni industriali», dice Maria Cristina Ferraguti, assessore alle attività produttive. «È morta anche Daniela Malavasi, che faceva la maestra alla scuola materna. Le volevamo bene tutti. La scuola era chiusa, e allora lei era andata a trovare il marito che ha una falegnameria, crollata di colpo. Stiamo cercando un anziano che abitava in via Mazzini». Cavezzo, 7300 abitanti, è conosciuto in mezza Emilia e anche in Veneto perché qui si svolge «Il gran mercato della domenica», con centinaia di ambulanti». «Funziona dal 1767, si è fermato solo con le guerre». Si fermerà anche adesso, con la guerra che è partita da sottoterra. Nella piazza del Monumento c´è un palazzo a due piani, ma basta guardarlo meglio per capire che fino a stamattina di piani ne aveva quattro. «E pensare – dice l´assessore – che ieri sera quasi ci mangiavano la faccia, quando abbiamo ordinato lo sgombero di 6 palazzine. Erano intatte, ma vicino a case pericolanti. C´erano decine di famiglie che non volevano andarsene. E questa mattina quella palazzine, per fortuna vuote, sono cadute tutte».
Riesce a sorridere, l´assessore Ferraguti. «Ci è rimasta la campagna, per fortuna. Metteremo delle tende nei campi di mais, vicino a strade sicure e lontano da ogni casa. I pochi sfollati della prima scossa li avevamo messi al palasport, ma oggi anche lì c´è stato un crollo». Ma arriveranno domani, le tende. Stanotte, come in tutta questa Bassa devastata, si dormirà in macchina, nei parcheggi lontano dai palazzi. Anche i vigili del fuoco stanno in mezzo alla piazza, perché con le scosse continua non si riesce a lavorare. «Interveniamo solo se ci segnalano dei feriti».
Il disastro di Medolla è lontano dal centro storico. È nei capannoni industriali del biomedicale che cadono giù come foglie in autunno, e sotto ci sono gli operai chiamati al lavoro. Sono operai anche Juri Lolli e Adil Meziane, arrivati dalla ditta Rcm di Monteveglio, nel bolognese, e ora in piazza Garibaldi a distribuire cibo. «Anche noi abbiamo sentito la scossa, stamattina, e abbiamo deciso di uscire dalla fabbrica. Ma c´erano i pasti pronti per la mensa, e allora li abbiamo portati qui». Il sindaco, Filippo Molinari, è sotto un gazebo. «Avevamo messo il Coc, centro operativo comunale, dentro la scuola elementare, che al primo colpo aveva resistito bene. Adesso anche la scuola è danneggiata, il Coc è all´aperto. Ho mandato una macchina con gli altoparlanti per dire a tutti di non rientrare nelle case. Aspetto 450 tende per stanotte, spero arrivino».
A Mirandola sembra tornato il medioevo. Tutte le porte della città, tutte le strade di accesso, sono presidiate da vigili e carabinieri. I nastri biancorossi sostituiscono le antiche mura. Quello che resta dell´ospedale è all´aperto, ma sembra organizzato bene. Ci sono le tende per la diabetologia, per la cardiologia, un container per la radiologia. Era crollato un pezzo del tetto del Duomo, otto giorni fa. Oggi è venuta giù anche la facciata, e anche la chiesa di San Francesco – la seconda dedicata a questo Santo, dopo quella di Assisi – e quella del Gesù, assieme a centinaia di case e palazzi. Il sindaco, Maino Benatti, sta gridando al telefono per chiedere nuovi soccorsi. «Mi avevate promesso tre colonne e adesso mi dite che entro stasera ne arriva solo una. Dove metto a dormire la mia gente?». Venticinquemila abitanti e già prima della nuova scossa il 45% delle case erano non abitabili. «Stavamo controllando il centro pezzo per pezzo – dice Maino Benatti – per recuperare le case agibili. Adesso non è più possibile. Tutto il centro deve essere chiuso e non so quando potremo mettere mano a una zona rossa così grande».
Nel prato dove c´è il tavolo rosso con le «persone trovate» ci sono anche gli altri «uffici comunali». Impiegati e dirigenti che sono qui anche se la loro casa è distrutta. «Sulla mia – dice Fabio Montella – sta cadendo la torre dell´acquedotto. Anche la mia compagna ha la casa distrutta». Ma sono tutti qui, a prenotare tende per i cittadini, a ordinare altri pasti per chi stasera non avrà nulla da mangiare. A Concordia, 9000 abitanti accanto all´argine della Secchia, a sera sono ancora tutti a digiuno. «E nemmeno per il pranzo non è arrivato nulla. Per un solo giorno, non ne facciamo un dramma». Qui si vive nel parco davanti al municipio e la caserma dei carabinieri, ambedue crollati. «Se la prima scossa è arrivata a 10 – dice il sindaco Carlo Marchini – questa è arrivata a 100. Non c´è più una casa in piedi, nel centro, e anche in periferia ci sono abitazioni implose. Speriamo che domani arrivi una tendopoli con 250 posti, per mettere al riparo i malati e gli invalidi. Io e tutti gli altri dormiremo in macchina».
Sono arrabbiati, qui a Concordia, perché pensavano di esser «fuori» dal terremoto. Davanti al furgone dei vigili del fuoco c´è chi chiede di entrare in casa per prendere le medicine, e chi invece vorrebbe un aiuto per tirare fuori dalla stalla venti vacche. «Dobbiamo salvare gli uomini, prima di tutto». Si aspettava una giornata quasi normale, con le ispezioni ai palazzi che erano stati lesionati. E invece la scossa ha anche ucciso. Sergio Cobellini stava uscendo dalla banca della piazza quando è stato travolto da un comignolo. Nell´angolo dov´è morto, da lontano, si vedono solo calcinacci.

La Repubblica 30.05.12