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"Le pasionarie", di Anais Ginori

«Siamo contro la violenza, non abbiamo rancori verso nessuno. Dietro al nostro sorriso ci sono le lacrime e il nostro sarcasmo è una reazione al caos». Nell’ultima lettera dal carcere, appena qualche giorno fa, le attiviste russe di Pussy Riot rivendicano con orgoglio la loro battaglia. Da oggi le tre ragazze affrontano il processo con l’accusa di “atti vandalici”. In realtà, la loro colpa è aver cantato il 21 febbraio, a pochi giorni dalle elezioni, una preghiera rock dentro alla chiesa moscovita Cristo Salvatore. “Madre di Dio, liberaci da Putin”, era il ritornello. Maria Alekhina, Nadezhda Tolokonnikova e Yekaterina Samutsevich, arrestate a marzo, rischiano fino a sette anni di carcere. In favore della loro liberazione si sono mobilitate star come Madonna e Sting, ma anche intellettuali come Salman Rushdie.
Con i loro volti sbarazzini, le Pussy Riot sono le ultime icone di una contestazione al femminile, ormai globalizzata. Dalla primavera araba ai cortei studenteschi in Cile, dai gruppi dissidenti in Iran e in Cina fino all’opposizione cubana, sempre più spesso la protesta è donna. Non si tratta, come un tempo, di farsi portavoce di rivendicazioni femministe, almeno non solo. Le giovani che lanciano il guanto di sfida contro le dittature lo fanno in nome di diritti e libertà universali. Cavalcano l’onda di Internet, molte di loro sono blogger, ma sanno scendere in piazza, mettersi in gioco fisicamente, usando il proprio corpo, vedi il gruppo ucraino Femen che sfila a seno nudo. Donne contro. Con forza e coraggio, come e più degli uomini. L’esempio che vale per tutte è quello di Aung San Suu Kyi che ha scelto di sacrificare tutto, affetti e famiglia, in nome della sua battaglia democratica. La leader dell’opposizione birmana ha accettato di passare gran parte della vita in prigione costringendo infine il regime dei generali birmani ad ascoltare alcune delle sue richieste. Non è più un’eccezione. Il Nobel per la Pace del 2011 è andato a tre donne: la yemenita Tawakkul Karman e le due liberiane Leymah Gbowee e Ellen Johnson-Sirleaf. Certo, sono casi diversi. Johnson- Sirleaf è stata eletta presidente del suo paese, lavorando alla riconciliazione dopo la guerra civile. Ma tutte rappresentano, secondo il comitato di Oslo, la «lotta non violenta in favore della sicurezza delle donne e del loro diritto a partecipare al processo
di pace». Un altro volto femminile che coalizza proteste e manifestazioni è quello di Yulia Tymoshenko, guida dell’opposizione in Ucraina, arrestata
un anno fa. Molti i sostegni internazionali che ha ricevuto, per ora senza risultati. Prima ancora, c’era stata la franco-colombiana Ingrid Betancourt, sequestrata dai guerriglieri delle Farc e liberata solo dopo sei anni.
Pasionarie, ribelli, barricadiere. Per ognuna di queste donne c’è la tentazione di dare facili etichette anche se nessuna di loro si assomiglia. Niente collega la studentessa Camila, che con la sua bella faccia ha reso famose le istanze del movimento cileno per la difesa dell’istruzione pubblica, con la cubana Yoani Sánchez che denuncia attraverso il suo blog gli abusi del regime castrista. Spesso sono eroine per caso, come Neda, la ragazza iraniana uccisa tre anni fa e divenuta simbolo dell’opposizione contro il regime degli ayatollah. Al di là dei risultati politici, infatti, la protesta al femminile ha un forte impatto comunicativo. I video online delle Pussy Riot, con i loro blitz colorati e punk contro Putin, Medvedev e altri potenti di Mosca, sono molto più cliccati che qualsiasi comunicato o sito dell’opposizione russa. La loro apparizione al processo, trasmesso in diretta, diventerà un’altra occasione di mobilitazione. Ci sarebbe stata così tanta attenzione dai media se al posto delle tre graziose ragazze ci fossero stati degli imberbi giovanotti?
«Non basta una bella faccia per portare in piazza un milione di studenti e genitori, ed avere il sostegno della maggioranza dei cileni», ha risposto qualche mese fa Camila Vallejo Dowling, 23 anni, quando era al culmine della sua notorietà. Ma c’è anche chi ha deciso di sfruttare questo vantaggio. «Prima sfilavamo normalmente e nessuno ci ascoltava. Per questo abbiamo deciso di spogliarci» raccontano le attiviste ucraine di Femen, che hanno trasformato la nudità in un atto di militanza politica. Hanno lottato (invano) contro la prostituzione e i bordelli organizzati nel paese in vista degli europei di calcio. Sono andate nelle strade di Kiev senza magliette, a volte anche solo con gli slip, e pazienza se faceva freddo. Bionde, magre, bellissime. Una militante di Femen si è buttata addosso al patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill, come gesto di solidarietà con le Pussy Riot. “Via da qui!” ha urlato la donna, jeans e petto nudo, sostenuta da un gruppo di nazionalisti. Anche lei è stata arrestata per “atti vandalici”.
Qualche mese fa, la blogger egiziana Aliaa Magda Elmahddy ha postato su Twitter un autoritratto nel quale appariva in bianco e nero, con calze autoreggenti e solo un fiore rosso tra i capelli. Voleva denunciare così la doppia minaccia che subiscono le donne della primavera araba: quella dei militari e quella degli integralisti islamici. In Tunisia, dove pure la rivoluzione contro le dittature è incominciata, un’altra attivista, Hanane Zemali, si è spogliata in Rete contro il maschilismo e il ritorno della sharia. Altre ragazze discinte hanno sfilato nelle strade di Gerusalemme sfidando gli ultraortodossi. L’artista dissidente cinese Ai Weiwei si è fatto fotografare circondato da quattro donne. Tutti svestiti,
con le mani sulle parti sensibili, e un sorriso beffardo.
Il corpo femminile è tornato a essere il medium e il messaggio. L’arma pacifica da scagliare contro l’oppressione e l’ingiustizia. E’ sempre stato così, basti ricordare la leggenda di Lady Godiva, sposa del conte di Coventry che calvalcò nuda per costringere suo marito a rinunciare all’ennesimo balzello. E nell’Ottocento il pittore Delacroix riprendeva Marianne come allegoria della “Libertà che guida il popolo”, una guerriera con il seno parzialmente scoperto. Sono passati quasi due secoli ma il fascino della donna rivoluzionaria, colei che insorge, è intatto. Anzi, nella civiltà delle immagini, è diventato forse ancora più forte. Con le loro minigonne colorate e quel nome ammiccante, le Pussy Riot sono già un simbolo. Amnesty International ne ha chiesto la liberazione, dichiarandole prigioniere politiche. Per loro, si organizzano petizioni, sit-in davanti alle ambasciate, concerti rock. Tre ragazze disarmate, indifese ma molto sexy contro l’onnipotente e virile Putin. Mai sottovalutare la forza di un’icona.

La Repubblica 30.07.12

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L’opinione del sociologo francese Alain Touraine “Sono in prima linea perché è in crisi il modello maschile”

«LE donne stanno diventando motore di un cambiamento politico perché possono immaginare un altro modello sociale dopo che quello maschile, ormai vecchio di secoli, è entrato in crisi». Alain Touraine è convinto che i casi, piccoli o grandi, di leadership femminile nelle contestazioni sono destinati a moltiplicarsi. «Ci sono casi marginali e altri più centrali, ma comunque osserviamo l’apparizione di nuove voci nella scena pubblica» racconta il sociologo francese che ha pubblicato qualche anno fa “Il mondo
è delle donne”.
Anche delle donne che guidano le proteste?
«Intanto bisogna sottolineare che non è un fenomeno completamente nuovo. Una delle rivolte francesi più famose è stata condotta da Giovanna d’Arco. In passato, sono già esistiti molti personaggi femminili di rottura e sfida al potere esistente. Quindi facciamo attenzione a non cadere in facili pregiudizi o stereotipi».
Eppure lei prevede un nuovo protagonismo.
«Siamo in una fase storica propizia alle donne. Nei movimenti studenteschi, per esempio, in Iran come in Cile, le ragazze sono in prima linea perché sono già maggioranza nelle università. Le donne non solo partecipano ma portano dentro a queste proteste anche il tema della parità. E’ un processo che va avanti da decenni in Occidente, mentre altrove è più recente».
C’è una differenza con le rivendicazioni guidate da voci maschili?
«Sono sciocchezze. Non credo a una psicologia femminile predeterminata che possa imprimere una differenza “naturale”. Le caratteristiche semmai sono il frutto di una costruzione sociale, e come tali non devono essere assimilate al sesso ma al contesto nel quale si producono. La vera diversità delle donne viene dall’esperienza di cui sono portatrici».
Di quale esperienza sta parlando?
«Le donne sono state rinchiuse per secoli nel privato. La loro irruzione nello spazio politico è la fine di una vistosa assenza. Sono portatrici, non per caratteristiche psicologiche ma storiche, di un nuovo interesse per la sfera pubblica, proprio in quanto tradizionalmente escluse».
E in nome di questo passato sarebbero oggi più pronte ad alzare le barricate?
«Gli uomini hanno esaurito la loro capacità di immaginare un mondo nuovo, rappresentano un modello politico vecchio. Le donne sono, per così dire, avvantaggiate perché oggi fare politica significa riconciliare pubblico e privato. Le rivendicazioni femminili sono globali, hanno un discorso più inclusivo».
Il mondo sarà cambiato dalle donne?
«E’ un processo lungo e che non dobbiamo valutare con gli occhi del passato. Gli uomini sono rivoluzionari, le donne sono democratiche. Sono capaci di elaborare progetti di riforma di società. S’impegnano sulla difesa di libertà, uguaglianza, solidarietà. Sono anche le prime vittime delle dittature, degli abusi, delle ingiustizie. E come tali hanno più interesse a immaginare un cambiamento. Non per se stesse, ma per tutti».

La Repubblica 30.07.12