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"La nuova idea di unione politica europea", di Andrea Manzella

Che fare per il 2014, quando si voterà per il Parlamento europeo? Quale prospettiva si darà al popolo degli elettori, unificato dalla stessa stretta che grava sul “mestiere di vivere” quotidiano? “Titoli neri come temporali”: la grande crisi riporta alla mente la fulminea sintesi che Cesare Pavese faceva dei giornali in altri tempi d’ansia. Allora, al fondo del tunnel europeo c’era la speranza della pace. Oggi, c’è la speranza di una cosa che sembra più vicina, e invece si rivela ogni giorno più sfuggevole e astratta, quella che si chiama “unione politica”. La chiedono i governanti, gli economisti, i giuristi. Si moltiplicano gli appelli degli intellettuali. Ma nessuno fa una cosa, una sola cosa che dichiari apertamente quel fine. Dominano ancora quei tabù che hanno fatto sbianchettare dai Trattati parole come costituzione, federazione, legge (persino).
Tutti sanno, però, che lo scenario è mutato.
I vincoli sempre più stringenti dei Trattati annullano di fatto la sovranità nazionale degli Stati, condizionando i diritti più legati alla loro identità. I diritti sociali, così diversi nelle tradizioni di comunità di ciascuno Stato. I diritti di bilancio, così legati alla dualità dei parlamenti nei confronti dei governi. I diritti di scelta politica, perfino, ora che la scelta si è fatta stretta tra esecuzione e dissesto fiscale: l’alternativa del diavolo.
Si è formato così uno “spazio pubblico europeo”. Ma non è quello, di coesione e di opinione pubblica comune, perseguito dai federalisti custodi della grande tradizione. È ora uno spazio segnato da una percezione negativa di vincoli e balzelli in favore degli “altri”: i più poveri o i più ricchi, a seconda che si sia al nord o al sud. È l’arena residuale concessa da un nuovo jus publicum europaeum dove i diritti appaiono solo il riflesso affievolito del potere. Non vi è da meravigliarsi se in questo spazio cresca la prosperità politica di chi parla contro l’Europa e le sue istituzioni: non come cattivo scudo contro la crisi, ma come se la crisi l’avessero creata loro.
Grandi sforzi si erano fatti per modellare le istituzioni europee secondo il figurino degli Stati nazionali: per colmare il loro deficit democratico, si diceva. Ora ci si accorge che privazioni e riduzioni di spesa hanno aperto, al di là della loro necessità, la strada a movimenti politici che, nella lotta contro “questa” Unione, travolgono anche il suo patrimonio costituzionale. È quel che accade nelle prese di potere in Ungheria, in Romania. Ma il morso dei movimenti populisti anti-sistema europeo si avverte dappertutto, dalla Germania all’Italia. Un deficit democratico indotto.
È questo rischio democratico comune che dovrebbero avvertire i giudici tedeschi che si sono assunti (con le ulteriori pesanti conseguenze che sappiamo) la responsabilità di rinviare a settembre il giudizio sull’entrata in vigore delle ultime regole di solidarietà, già approvate dal Bundestag.
La consapevo-lezza, cioè, che il giudizio di costituzionalità sulle ultime norme europee, rispetto ai poteri del parlamento tedesco non può limitarsi al sistema democratico della Repubblica federale. Così come del resto vuole la stessa Costituzione tedesca: che all’articolo 23 stabilisce la responsabilità della Germania per lo sviluppo di una Unione “vincolata al rispetto dei principi democratici”.
La speranza è allora che parametri formali e procedurali non offuschino questa intelligenza delle cose. Un pericolo sempre presente nella interpretazione delle costituzioni.
Questa volta, infatti, la ragione è dalla parte dei parlamenti che capiscono di dover legittimare lo “stato d’eccezione” (accade nel Bundestag come nel parlamento italiano). “Si appropriano” come diceva un grande giurista tedesco, dello stato d’eccezione. E questo non solo per la pressione dei mercati (tanto più aggressiva quanto più avverte che la politica sta ormai preparandosi ad una rivolta culturale contro il determinismo dei moltiplicatori finanziari) ma perché vedono finalmente nelle ultime mosse dell’Unione un cambio di passo.
Vedono che è iniziato un processo che punta non più solo sulle regole e la loro osservanza ma sulla forza dell’intreccio di istituzioni.
Naturalmente, è un processo pieno di ostacoli e passi laterali e resistenze: eppure ci sono già fatti impensabili fino a poco tempo fa. Come il condizionamento reciproco del potere di bilancio (il potere su cui sono nati i parlamenti) con il “semestre europeo”: avvio ad una Unione di bilancio. Come la cooperazione interparlamentare: un parlamentarismo dell’Unione che supera la contrapposizione tra Parlamento europeo e i parlamenti nazionali e ne fonda, al contrario, l’operare congiunto in “conferenze” per materie. Come l’abbandono dell’unanimità per l’entrata in vigore di nuove regole comuni: che ora divengono effettive con la ratifica di una maggioranza degli Stati contraenti. Ma tutto questo acquista senso solo se viene inserito in una convincente narrazione per gli elettori del 2014. L’idea cioè che si voterà per una Europa diversa, capace di affrontare la crisi non solo con un set di regole ma con meccanismi istituzionali unitari: l’euronazionalismo.
Non c’è tempo – e forse neppure spazio, in un clima che si è fatto plumbeo – per grandi ingegnerie costituzionali che implicherebbero incertissimi mutamenti dei Trattati. Ma c’è tutto il tempo che si vuole per fare alcune cose essenziali.
Gli Stati, senza cambiare i Trattati, potrebbero adottare una “procedura elettorale uniforme” che consenta lo scambio di candidature e la presentazione di capolista unici tra Paese e Paese da parte dei grandi partiti europei e che dia senso ad uno spazio non fatto di paure ma di speranze politiche non solo domestiche.
Gli Stati, con dichiarazione comune preelettorale, potrebbero impegnarsi a nominare anche come presidente del Consiglio europeo, il presidente della Commissione eletto dalla maggioranza nel Parlamento europeo. Una unione presidenziale, anche qui, fattibile senza cambiare i Trattati.
Gli Stati potrebbero cambiare le regole (non costituzionali) che ora disperdono e rendono invisibile e spesso sprecata la massa dei fondi di coesione europei tra le regioni. E potrebbero riassumerne la gestione centrale, sotto gli stretti controlli che vincoleranno i bilanci statali, come strumenti di politica economica comune.
I parlamenti (europeo e nazionale) potrebbero assieme dichiarare di accettare la prospettiva di un futuro lavoro “per conferenze” e “per convenzioni” euronazionali sulle grandi questioni dell’Unione: facendo capire agli elettori che indirizzi e controlli e indagini di ogni Camera rappresentativa hanno un senso solo se acquistano il respiro dell’interdipendenza dei problemi. E che quindi la cooperazione interparlamentare, già prevista nei Trattati, è l’unica forma di parlamentarismo all’altezza dei tempi.
Insomma: da una catena di solidarietà istituzionali, potrebbe nel 2014, nel centenario della originaria tragedia europea, prendere primi concreti contorni quella “unione politica” così citata. E assicurare i cittadini che il loro voto per l’Europa avrà l’efficacia di una scelta politica piena. Perché un astensionismo di massa sarebbe di tutte le crisi, la più grave.

La Repubblica 01.08.12