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"La verità tedesca sull'Europa di domani", di Eugenio Scalfari

Molti politici tedeschi, a cominciare dal presidente del Bundestag, dal leader bavarese del Csu, dal ministro liberale del Tesoro, si sono fortemente adontati della rivendicazione di Mario Monti (intervista al prestigioso “Spiegel”) del ruolo decisivo dei governi rispetto a quello dei Parlamenti. La Germania – hanno detto – non rinuncerà mai alla democrazia parlamentare, la sua stessa storia (Hitler) le impone una tale irrinunciabilità.
Questa è stata la reazione della classe dirigente tedesca, socialdemocratici compresi. E questa è stata anche la reazione delle opposizioni populiste italiane (Grillo, Di Pietro, Lega) ed anche d’una parte consistente dei “berluscones”, ulteriormente irritati a causa della successiva intervista di Monti al “Wall Street Journal” nella quale il Presidente del Consiglio ha ripetuto giudizi del tutto ingiustificati sulla concertazione con i sindacati ed ha pesantemente criticato l’affidabilità del precedente governo salvo scusarsene subito dopo con lo stesso Berlusconi. Dopo queste svariate e forse troppo numerose esternazioni Monti ha comunque incassato l’ennesima fiducia sulla revisione della spesa: un altro compito a casa portato a buon fine.
Ma c’è un’altra dichiarazione, non connessa con l’intervista di Monti ma molto pertinente con il tema da lui sollevato. L’ha rilasciata il presidente della Bundesbank Jens Weidmann subito dopo la riunione del consiglio direttivo della Bce. Eccone il passaggio centrale: «Siamo la Banca centrale più grande e più importante dell’Eurosistema e la nostra opinione conta più di quelle delle altre Banche centrali dell’Eurosistema. Questo vuol dire che abbiamo un ruolo diverso ».
Il bersaglio di Weidmann non è Mario Monti ma Mario Draghi, tuttavia “tout se tient” e questo spiega perché Draghi ha dovuto condizionare i suoi interventi sul mercato secondario dei titoli a breve scadenza alla richiesta d’aiuto che Monti dovrebbe fare al fondo “salva Stati” per consentire alla Bce di procedere ad acquisti “illimitati” di quei titoli. La classe dirigente e l’opinione pubblica tedesca vogliono “l’inchino” dei Paesi mediterranei alla politica della Bundesbank. La Grecia, il Portogallo ed anche la Spagna quell’inchino l’hanno già fatto. Il governo Monti ha accettato di fare i compiti in casa di propria iniziativa ma, almeno per ora, l’inchino rifiuta di farlo. E questo è il nocciolo del problema.
I mercati da lunedì ad oggi reagiscono in positivo; evidentemente ritengono che nei prossimi giorni anche Monti si inchinerà consentendo a Draghi di entrare in scena.
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Ma che cosa ha detto in realtà allo “Spiegel” il nostro presidente del Consiglio? Il comunicato emesso da Palazzo Chigi dopo le proteste tedesche non spiega molto; fa un po’ di retromarcia più di forma che di sostanza riconfermando il suo rispetto per i Parlamenti in generale e per quello italiano in particolare. Eppure non era e non è affatto
difficile cogliere l’essenza del suo pensiero. In un regime di democrazia parlamentare (con la sola eccezione della Francia presidenzialista) il governo ha il compito non esclusivo ma preminente di governare (lo dice la parola stessa) e il Parlamento ha il compito non esclusivo di controllarlo. Gli atti del governo debbono comunque essere approvati dal Parlamento. Ciò significa che sia l’uno sia l’altro dei due soggetti politici deve tener conto delle opinioni pubbliche nazionali dando ad esse la prevalenza su un’opinione pubblica europea che allo stato dei fatti è inesistente.
La Comunità europea si regge da sessant’anni su un sistema intergovernativo, in particolare l’Eurosistema formato da 17 Paesi confederati, da una moneta comune e da una Banca centrale con poteri più deboli delle altre Banche centrali dell’Occidente. Per di più, come abbiamo
già detto, la Bce è fortemente condizionata dalla Banca centrale tedesca.
Ma poiché l’intero Occidente attraversa da cinque anni una crisi finanziaria epocale e la sua economia reale è da due anni in recessione e probabilmente lo resterà per altri due, si è reso indispensabile passare dalla Confederazione alla Federazione, sia pure limitata al governo comune dell’economia.
A questo punto di svolta i governi e i Parlamenti dovrebbero scegliere tra la Federazione o la continuazione del regime intergovernativo. Questo e non altro che questo ha detto Monti. In realtà non c’era neppure bisogno che lo dicesse perché è una realtà imposta dalla forza dei fatti e tutti – perfino la Francia della “grandeur” – hanno dovuto riconoscerlo. Quanto alla Germania, se ne è fatta addirittura la promotrice ma ad una condizione: l’egemonia tedesca su tutto l’Eurosistema e chi ci sta ci sta.
Monti non ha affatto negato il ruolo decisivo dei Parlamenti e tanto meno dei governi nazionali, ma ha messo in chiaro che da ora in poi – per decisione unanime – si sta lavorando per effettuare graduali ma fondamentali “cessioni di sovranità” alla costituenda Federazione. Resta il problema dell’egemonia tedesca.
Non sappiamo come la pensi il nostro presidente del Consiglio in proposito.
Probabilmente considera inevitabile che nella fase iniziale di questo processo quell’egemonia sia necessaria. Storicamente è sempre stato così, il passaggio dalle confederazioni agli Stati federali è sempre avvenuto per iniziativa di una forza egemone. Ma nel prosieguo il tempo modifica le situazioni, l’opinione pubblica europea acquista consistenza, gli interessi federali hanno la meglio su quelli pre-esistenti. E tanto più sarà così nel quadro d’una economia globalizzata a livello planetario, con flussi continui di capitali, tecnologie, divisione del lavoro, diritti di cittadinanza e interessi sociali in perenne mutamento; con istituzioni logore da abbattere e con tradizioni, culture e memorie da rivisitare e conservare.
Ho citato le dichiarazioni di Monti e anche quelle del presidente della Bundesbank, ma voglio chiudere queste mie riflessioni citando un bellissimo articolo di Melania Mazzucco pubblicato ieri dal nostro giornale. E’ intitolato “La resistenza di Omero” e conclude così: «Sulla bilancia della storia pesano di più i nomi dei filosofi, degli scrittori e dei matematici che hanno inventato il nostro modo di pensare il mondo, Socrate e Aristotele, Democrito e Pitagora, oppure milioni di obbligazioni e titoli di Stato? Un quintale di paglia pesa come un quintale di piombo ma la parola libertà per me peserà sempre di più della parola default».
Sono interamente del suo parere.

La Repubblica 08.08.12

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“MA IO TEMO CHE LA BCE NON BASTI”, di ALBERTO BISIN

La BCE per statuto non puo’ intervenire sui rendimenti dei titoli dei Paesi membri operando direttamente sul mercato secondario. Ma è da tempo ormai in Italia che su questo punto la Bce è sottoposta ad intense sollecitazioni da parte di governo e opinione pubblica.
Gli argomenti addotti a favore di un intervento della Bce sugli spread (cioè sui rendimenti relativi tra Paesi) sono sostanzialmente due, di carattere sia formale che sostanziale. Fossero solo esercizi retorici, componenti del dibattito sulla politica monetaria in Europa, non vi sarebbe molto da rimarcare. Ma pochi giorni addietro il governatore della Banca d’Italia, in una intervista a Massimo Giannini, ha dato supporto a queste argomentazioni, con cautela ma anche con grande chiarezza; vale la pena allora di analizzarle in un certo dettaglio.
I rendimenti sui titoli sovrani oggi inceppano il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, e su questo lo statuto non impedisce di intervenire. Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria riferisce, ad esempio, a come riduzioni dei tassi o iniezioni di liquidità abbiano gli effetti desiderati sull’offerta di credito e quindi (a breve) su consumi ed investimenti. Questo meccanismo opera attraverso il sistema bancario e più in generale attraverso quello finanziario, specie attraverso il mercato interbancario. Se il meccanismo si inceppa sono problemi, non solo perché la politica monetaria fatica ad aver effetti, ma soprattutto perché se si inceppa il sistema bancario, se il mercato inter-bancario si congela, si finisce in un credit crunch, una situazione in cui le banche riducono i prestiti a famiglie e imprese l’economia tende a bloccarsi. I rendimenti sui titoli sovrani oggi non sono i rendimenti di mercato. I rendimenti sui titoli (ad esempio italiani) non rappresentano (solamente) la loro probabilità di default ma (includono anche) il rischio che crolli l’intero sistema monetario Euro. Il governatore chiarisce bene questo punto: il rischio che l’Euro crolli, egli sostiene, è «qualcosa di esogeno rispetto ai fondamentali dell’economia degli stessi Paesi». L’aspetto formale della prima argomentazione sembra un’operazione logica: lo statuto non permette l’operazione X, ma se noi diciamo che non facciamo X ma che facciamo X solo come mezzo per ovviare a Y, allora tutto si risolve. Ma al di là degli aspetti formali, il dramma sostanziale è che Y, cioè l’inceppamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria e del sistema bancario, va affrontato davvero al più presto. Non vi è dubbio che il Paese si trovi in un credit crunch, l’attività produttiva è in parte bloccata dalla mancanza di credito a famiglie e imprese. Ma allora non sarebbe meglio agire direttamente sul sistema bancario, cosa che la Bce può fare senza forzare il suo statuto? Il credit crunch in Italia è dovuto in buona sostanza al fatto che le banche hanno utilizzato una larga parte delle proprie risorse per acquistare titoli sovrani invece che per concedere credito (tra l’altro proprio a questo si deve il fallimento delle Ltro, le iniezioni di liquidità con cui la Bce ha cercato la scorsa primavera di
ravvivare il mercato del credito bancario). Non v’è dubbio che la situazione sui mercati dei titoli danneggi le banche in questo momento, ma intervenire sui rendimenti dei titoli senza intervenire più efficacemente sul sistema bancario sembra una strategia atta a nascondere il vero obiettivo di tali interventi: finanziare anche solo a breve il debito dei Paesi messi sotto tensione dai mercati. Anche la seconda argomentazione non mi pare a tenuta completamente stagna. Non v’è alcun dubbio che gli spread oggi contengano una componente dovuta al rischio che l’Euro crolli. Ma questo rischio è determinato dal fatto che le prospettive di crescita delle economie del Sud dell’Eurozona sono alquanto misere (gli interventi di politica fiscale, nella mancanza di tagli strutturali alla spesa, rischiano di condurre queste economie all’asfissia da carico fiscale). I mercati quindi scontano l’eventualità che la Germania, posta davanti al fatidico “lascia o raddoppia”, decida di lasciare, uscendo dall’Euro invece di accollarsene i debiti. Questo rischio non pare affatto “esogeno”: esso rappresenta invece, a mio parere, la conseguenza delle scelte di politica economica di alcuni Paesi dell’EuroZona, Italia inclusa, che stanno (purtroppo) coerentemente minimizzando gli interventi atti a riaggiustare la propria posizione fiscale e competitiva (“noi abbiamo fatto i nostri compiti a casa”) e allo stesso tempo stanno perseguendo azioni politiche e diplomatiche tese a gettare sulla Germania il maggior peso possibile della crisi.
Lo statuto della Bce include il divieto di intervenire sul mercato dei titoli sovrani non per capriccio, ma per solide ragioni economiche. In un contesto istituzionale come quello dell’Unione Europea in cui le decisioni di spesa sono decentrate ai singoli Stati, sono necessari vincoli e incentivi che garantiscano una sostanziale convergenza delle politiche fiscali dei Paesi membri. I parametri del Trattato di Maastricht avevano questa funzione, quella di opporre una prima diga a politiche fiscali irresponsabili. Una seconda diga è rappresentata proprio dai vincoli all’azione della Bce, atti a garantire che i costi di eventuali politiche fiscali poco responsabili di alcuni non possano essere divisi tra tutti i Paesi membri. Come ben sappiamo i parametri di Maastricht sono stati disattesi (Francia e Germania sono responsabili di uno spiraglio che altri, tra cui il nostro Paese, hanno poi spalancato). Molta più cautela, a dir poco, è necessaria prima di far saltare la seconda diga.
Tutta l’attenzione e la speranza riposta da governo, opinione pubblica e giornali sulle doti taumaturgiche delle istituzioni di politica monetaria è a mio parere mal riposta. Nella situazione del Paese oggi non vi sono sostituti monetari indolori ai necessari interventi di politica fiscale. È una dura realtà ed è necessario svegliarsi al più presto, senza perdere altro tempo.

La Repubblica 08.08.12