attualità, economia

"La doppia linea d'ombra", di Massimo Giannini

LA “linea d’ombra” tedesca, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa, torna a offuscare l’orizzonte d’Europa. È già successo, nella parabola a tratti tragica del Novecento. Succederà ancora, in quella pacifica del Terzo Millennio. L’identità fragile di una moneta rischia di alimentare un’alterità irriducibile tra i popoli. Quello che colpisce di più, nella nuova ondata revanchista partita dalla Germania, è la trasversalità del fronte politico schierato contro i vituperati Paesi del Club Med. Paesi che prosperano irresponsabili a spese delle finanze tedesche, contro la Bce dell’“italiano” Mario Draghi che gli regge il gioco, e alla fine contro l’euro che finisce per mettere in comune i vizi dei “latini” e
le virtù dei “teutoni”.
Il voto del prossimo anno non pesa solo a Roma. C’è un elettore anche a Berlino. Ma finora, almeno da quelle parti, non si era mai visto un fuoco incrociato che vede convergere i partiti della maggioranza, la Cdu e l’Fdp, e quelli dell’opposizione, la Spd, su una stessa linea non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista. Una linea populista e difensiva, quella emersa a sinistra con Schneider, che dà voce al contribuente tedesco stanco di pagare il costo dell’integrazione europea e del salvataggio dei Paesi periferici dell’eurozona: non i 310 miliardi di cui parla la Merkel, ma quasi 1.000 se si sommano gli aiuti, i crediti e le garanzie prestate finora dalla Bundesrepublik. Una linea sciovinista e quasi eversiva, quella rilanciata a destra da Willsch e Schaeffler, che dà corda all’ortodossia monetarista della Bundesbank stanca di soccombere nel board di una Bce ormai trasformata in una “bad Bank” finanziatrice di Stati-canaglia: dunque, si cambi “la regolamentazione del peso dei voti nelle sedi decisionali” dell’Eurotower.
Poco importa se la prima tesi sia falsa: la Germania, in rapporto al Pil, contribuisce al fondo salva-Stati meno di molti altri Paesi (compresi quelli del Sud). E poco importa se la seconda ipotesi sia assurda: introdurre nel Sistema delle Banche Centrali un criterio che fu caro a Enrico Cuccia, in base al quale «i voti non si contano, ma si pesano», oltre a implicare una revisione dello Statuto e quindi del Trattato, comporterebbe una violazione del principio democratico. “Una testa, un voto”, è una regola che vale e deve valere ovunque, in Occidente. Nel Bundestag come nel board della Bce. Ma il problema della “linea d’ombra” tedesca, a questo punto, è un altro. L’insofferenza contro i vincoli di questa Europa ineguale e irrisolta non è più solo questione di “falchi”, come finora ci siamo comodamente abituati a pensare. Questa sorta di sindrome di Weimar, che ritorna sotto altre spoglie e attanaglia a Berlino l’intero arco costituzionale, riflette con tutta evidenza un malessere sempre più radicato e diffuso nell’opinione pubblica tedesca.
Questa evidenza ha due implicazioni. La prima implicazione riguarda il destino stesso della moneta unica, e in questo ambito il ruolo della Banca Centrale Europea. Com’è chiaro a tutti, la partita inaugurata nel Vertice Ue il 28-29 giugno e poi nel Consiglio direttivo dell’Eurotower, il 2 agosto, non è affatto conclusa, ma semmai è appena cominciata. E Draghi non l’ha certo vinta, quella partita, ma deve ancora giocarla, riempiendo di fatti concreti gli annunci formulati in conferenza stampa. Una missione delicatissima, vista la risoluta e ostinata opposizione tedesca all’acquisto diretto di bond dei Paesi a rischio spread, come la Spagna e l’Italia. Se il programma di rifinanziamento non parte a settembre, qualunque sia la formula scelta (un nuovo Ltro o una riattivazione dell’Smp), la tregua agostana concessa dai mercati finirà, e per la moneta unica suonerà forse la campana dell’ultimo giro.
La seconda implicazione riguarda proprio l’Italia. L’irredentismo tedesco va confutato e arginato. Ma va innanzitutto capito. Il “superiority complex” della Germania non nasce solo dalla spocchiosa arroganza, inaccettabile in un Popolo che non finirà mai di farsi perdonare abbastanza per le carneficine novecentesche che ha generato. Origina anche dalla consapevolezza di un Sistema-Paese fondamentalmente sano, e di una società sufficientemente evoluta. Dove le riforme strutturali sono state compiute e dove la crescita non è solo il risultato di un’economia “sociale”, ma anche un derivato della filosofia morale: il giusto premio, cioè, alla scelte eticopolitiche condivise dalla nazione.
In un’Europa che si vuole federale e solidale, la pretesa che anche gli altri contraenti del patto comunitario facciano altrettanto non solo non è irricevibile, ma va raccolta perché è profondamente giusta. Questo, in Italia, sembra averlo capito solo Monti. E solo Monti sembra aver capito che, in un momento così difficile, per paradosso il nostro alleato più prezioso è proprio la Cancelliera di Ferro. Non è un caso se proprio la Merkel, in Europa, continua a difendere Draghi. E non è un caso se proprio la Merkel, in Germania, subisce per la prima volta un assedio bipartisan. Oggi noi abbiamo bisogno della Zarina di Berlino. E dunque fa bene il presidente del Consiglio a coltivare con lei un rapporto politico e personale che finora, a parte qualche momento critico, non ha conosciuto appannamenti.
Ma la Zarina di Berlino ha anche bisogno di noi. Per evitare che in casa sua si punti inevitabilmente il dito contro quelle che tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre qualcuno chiama «le solite cavallette italiane», l’Italia non deve cedere un millimetro sul fronte della tenuta dei conti pubblici e sul rispetto dell’impegno al pareggio di bilancio strutturale. Come ricordano da giorni il premier e il ministro del Tesoro Grilli, «l’emergenza è tutt’altro che finita». Al di là delle formule, questo significa che la nostra, purtroppo, resta e deve restare ancora a lungo una politica economica «emergenziale». Margini per tornare a spendere, o per allargare in altro modo i cordoni della borsa, non ce ne sono ancora. E questo vale per il governo in carica, ma anche per i governi che verranno. Cedimenti propagandistici, su questo fronte, producono solo danni: illusioni tradite all’interno, ritorsioni adirate all’estero. Qui si apre un drammatico deficit di consapevolezza, nei partiti che si preparano a una campagna elettorale lunga ed estenuante. È la “linea d’ombra” italiana. E non è meno pericolosa di quella tedesca.

La Repubblica 17.08.12