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"Equità, la differenza fra destra e sinistra", di Nicola Cacace

Tutti parlano di equità, dopo che il Pd ne ha fatto tema centrale della campagna elettorale. Questo per almeno due motivi,la misura crescente del livello italiano di diseguaglianza sociale e l’evidenza dei risultati internazionali che mostrano il successo dei Paesi a più alta eguaglianza. Dai dati Bankitalia sulla ricchezza delle famiglie risulta infatti che metà della ricchezza privata, immobiliare e finanziaria, è concentrata nel 10% delle famiglie. Gli stessi dati che mostrano che la ricchezza privata italiana è superiore a quella tedesca e francese, rimandano ad una nota vecchia espressione del senatore socialista Formica «il convento è povero ma i frati sono ricchi». I dati internazionali sono ancora più evidenti: gli otto Paesi europei a più alta eguaglianza, i quattro Paesi scandinavi, più Olanda, Germania, Francia ed Austria, tutti con indice Gini (misura della diseguaglianza) inferiore a 0,3 sono anche quelli a più alto sviluppo. Sulla base di questi dati equità e sviluppo sono divenuti temi evocati anche dalle forze del centro e della destra, ma con delle differenze fondamentali. Mentre per la sinistra l’equità resta «componente essenziale e strutturale di un nuovo modello di sviluppo», per le altre forze in campo l’equità è materia di «un secondo tempo», come suggerisce il Sole 24 ore (14/1) in un articolo dalle inequivocabili conclusioni «priorità assoluta è quella di rilanciare lo sviluppo economico, condizione ineludibile non solo per tenere in ordine i conti ma anche per dare risposta alla domanda di equità». Perché non può esserci un nuovo sviluppo senza equità? Primo per motivi di domanda interna che concorre all’80% del Pil: è l’impoverimento dei due terzi della popolazione che fa crollare la domanda. Un secondo fattore di crisi, finanziaria questa, deriva dall’uso che la minoranza di super ricchi fa dei super guadagni: aumentano gli investimenti finanziari più o meno speculativi a danno degli investimenti produttivi, come è successo dagli anni ’90 quando il grande capitale italiano ha preferito investire in finanza ed in attività regolate e sicure come Enel ed Autostrade piuttosto che in attività produttive concorrenziali. Un terzo motivo per cui una alta diseguaglianza sociale limita lo sviluppo riguarda direttamente le caratteristiche della società della conoscenza e della globalizzazione. Data l’alta mobilità del capitale l’attrattività produttiva di un territorio oggi deriva soprattutto dalla quantità, qualità e costo del fattore lavoro. Sinchè permangono le attuali differenze di costo lavoro con i Paesi emergenti, nei Paesi industriali, Italia compresa, c’è spazio solo per prodotti ad alto valore aggiunto, in agricoltura, industria e soprattutto nei servizi, che richiedono livelli di istruzione e preparazione professionale mediamente alta e diffusa. È difficile avere una elevata formazione media dei cittadini in presenza di grandi diseguaglianze, come in Italia. E questo, insieme all’invecchiamento della popolazione, spiega il record italiano negativo del tasso di occupazione, 57 cittadini su 100 in età da lavoro, contro 65 in Europa e 75 nel nord Europa. Se non si opera un profondo riequilibrio sociale con le sole politiche possibili, un fisco più progressivo ed efficace contro evasione ed elusione e dei servizi sociali universali ed efficienti, contemporaneamente a riforme pro concorrenza, è inutile parlare di vera ripresa e vero sviluppo. Non è con la politica dei due tempi che rimanda alle calende greche il recupero di equità che può aversi vero sviluppo. È questa la differenza tra destra e sinistra sulla equità che il confuso dibattito elettorale spesso confonde.

L’Unità 20.01.13