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La Babele italiana, di Vladimiro Polchi

«Limba român?». Un milione di persone oggi in Italia può rispondere «sì» a questa domanda: «Parli romeno?». «No, jo, unë jam shqiptare», risponderebbe invece il mezzo milione di albanesi. Senza l’italiano come lingua comune, difficilmente si capirebbero i cinque milioni di migranti del Bel Paese. L’Italia dei cento idiomi è come una coperta d’Arlecchino, con tante pezze colorate quante sono le lingue parlate: arabo, inglese, cinese. La star? Il romeno, senza dubbio, forte appunto del suo milione di “parlanti”.
In questi giorni dall’Inghilterra arriva la notizia che la seconda lingua più parlata sull’isola (dopo l’inglese ovviamente) è il polacco, grazie alla folta comunità di immigrati.
L’italiano è al dodicesimo posto, dopo il tamil e il turco, prima del somalo. E in Italia? Nel nostro Paese le lingue straniere entrano attraverso tre porte: quelle aperte da minoranze linguistiche, comunità di immigrati e corsi di lingua per italiani. Il primo canale è appunto quello delle 12 minoranze riconosciute e tutelate dalla legge 482/1999: albanese (parlato da circa 50 comunità nell’Italia meridionale), catalano, greco,
sloveno, croato, francese, franco- provenzale, occitano, friulano, ladino, sardo e tedesco. Ma al di là delle minoranze storiche, i più forti messaggeri dei nuovi idiomi oggi sono altri: le comunità migranti.
Stando alla fondazione Ismu a farla da padrone tra i “nuovi italiani” è senza dubbio il romeno, parlato abitualmente da circa un milione di persone. Segue l’arabo, condiviso da 693mila immigrati nordafricani ed eritrei (nelle sue numerose varianti) e l’albanese (483mila “parlanti”). Lo spagnolo è compreso da 291mila immigrati, provenienti da buona parte dell’America Latina (soprattutto peruviani, ecuadoriani, dominicani, colombiani, cubani
e argentini). Anche l’inglese e il francese hanno una buona diffusione tra i migranti: il primo è usato da 297mila persone tra indiani, pakistani, nigeriani e ghanesi; il secondo da 136mila tra senegalesi, ivoriani e cittadini di Burkina Faso, Camerun e Mauritius. E ancora: nella classifica seguono il cinese (per 210mila persone), l’ucraino (201mila) il filippino
o tagalog (134mila) e infine il polacco (109mila). «Si tratta di proiezioni che associano a ogni nazionalità la più importante lingua parlata in patria — spiega Alessio Menonna, ricercatore Ismu — risulta però sottostimata la diffusione dell’inglese e del francese spesso parlate come seconda lingua da molte comunità: penso alle Filippine
per l’inglese, alla Tunisia e all’Algeria per il francese».
Le lingue dei migranti potrebbero essere una risorsa per l’Italia: «Gli immigrati dovrebbero essere un ponte tra i Paesi di origine e il nostro. Questo però non accade — sostiene Franco Pittau, coordinatore del Dossier Caritas- Migrantes — ho potuto constatare, per esempio, che in paesi
come il Marocco e le Filippine sono pochi quelli che studiano in loco l’italiano, una conoscenza che oltre tutto sarebbe funzionale ai flussi verso l’Italia. Non solo. Non è neppure accettabile la nostra disattenzione nei confronti delle loro lingue madri». Secondo Pittau, «pur insistendo giustamente sull’apprendimento dell’italiano, base indispensabile per un adeguato inserimento, non dovremmo pretendere che trascurino la loro lingua, che li impoverirebbe. Basta pensare ai nostri connazionali all’estero, che anche a distanza di molte generazioni hanno conservato il riferimento all’italiano. Tra mantenimento della lingua di origine e apprendimento dell’italiano,
dovremmo trarre una maggiore predisposizione a conoscere i loro Paesi e le loro culture: si tratta di un arricchimento, che in un mondo globalizzato può essere anche veicolo di un ritorno economico».
Ma oltre alle minoranze e agli idiomi degli immigrati, quanti sono gli italiani che parlano una seconda lingua? Pochi, quattro su dieci (il 38%), molto meno della media europea (54%). A bocciare il nostro Paese è la pagella dell’Eurobarometro 2012: l’Italia, insieme a Ungheria, Gran Bretagna, Portogallo e Irlanda, è tra i Paesi meno poliglotti. Piccola nota di consolazione: si registra un aumento di 6 punti percentuali, rispetto al 2005, degli
italiani che sanno parlare almeno due lingue straniere (22%). Le più parlate restano sempre l’inglese e il francese.
Guardando all’Europa, tra i banchi di scuola l’inglese è di gran lunga la lingua straniera più insegnata. Nel 2009/10, il 73% degli alunni della scuola primaria nell’Ue studiava l’inglese. Nell’istruzione secondaria inferiore e superiore, la percentuale superava il 90%. E in Italia? Risponde il ministero dell’Istruzione con i suoi dati (tenendo conto che alla medie oggi si studiano due lingue): tra primarie, medie e superiori oltre 7milioni di studenti italiani studiano l’inglese, quasi due milioni il francese, circa 600mila lo spagnolo e
412mila il tedesco. Quest’ultimo ha registrato un vero e proprio boom nell’ultimo anno, con una crescita del 18% degli studenti. La new entry è però il cinese: quest’anno tra istituti Confucio (10 nel nostro Paese), università pubbliche e private, scuole varie, oltre 10mila italiani studiano il mandarino.
Le tante lingue parlate in Italia convivono pacificamente, ma restano fondamentalmente impermeabili le une alle altre. «Le lingue delle comunità straniere in Italia non hanno la massa critica sufficiente e neppure il prestigio per influire sull’italiano — sostiene Edoardo Lombardi Vallauri, docente di linguistica all’università di Roma Tre — il prestigio
è un concetto centrale per i linguisti. Facciamo un esempio: il francese delle banlieu è nutrito di arabo, perché figlio di comunità antiche, compatte, importanti, modelli di prestigio culturale. Una lingua si impone per il suo prestigio e quello delle comunità migranti non è per ora così forte da “inquinare” l’italiano. Diverso è stato in altri casi. Nel ‘600/’700 il francese esportava il suo lessico. Poi è arrivato l’inglese forte del suo prestigio internazionale. Oggi in un vocabolario medio di italiano i francesisimi sfiorano quota quattromila, più delle parole d’origine inglese ». Eppure parrebbe il contrario. «Il motivo — risponde Vallauri — è che molti francesisimi, come “miccia”, “burro”, “danza”, si sono talmente adattati, da non essere più riconoscibili. Mentre le parole inglesi sono più identificabili e più recenti». Anche l’italiano ha esportato parole «ma bisogna risalire al Rinascimento, quando la nostra era una lingua di prestigio. Oggi siamo presenti solo in alcuni settori linguistici, come quelli legati alle belle arti, alla musica e alla cucina ». La questione finale è: i prestiti dalle altre lingue rappresentano un impoverimento dell’italiano? «L’apporto straniero è un bene, se non riduce l’espressività della nostra lingua. L’orrore del nuovo è sbagliata, quando non va a scalzare i vecchi vocaboli».

da la Repubblica