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L’arte della pace, di Adriano Sofri

A un certo punto è invalso l’uso del nome di “disabile” – e della sua variante, “diversamente abile”. Non è facile da definire; si può farlo alla rovescia, basta il lessico del vecchio servizio militare. Là una visita ti dichiarava “abile arruolato” oppure “scartato”. Si era idonei alla vita, cioè alla guerra, e se no si apparteneva allo scarto. Immagino che venga da qui il titolo che Massimo Toschi ha scelto per il racconto della sua vita, Un “abile per la pace”. La disabilità – nel suo caso, l’effetto di una poliomielite contratta nel primo anno di vita, nel 1945 – non gli impedisce di arruolarsi fra i costruttori di pace, e anzi agisce come un vantaggio. La sua prima terapia fu di pedalare su un triciclo, immaginandosi alla ruota di Bartali. Andò a Lourdes (l’avrebbe rifatto tante volte, accompagnando i pellegrini) e gli successe qualcosa che valeva un miracolo: si accorse dei tanti che soffrivano molto più di lui. Toschi è un viaggiatore. In conto proprio, o per la presidenza di Prodi, o da assessore regionale toscano. Non c’è luogo estremo, di guerre, di povertà e di malattie che non abbia visitato. Il record dei suoi viaggi è tanto più invidiabile per uno che ha mosso i suoi primi passi quando aveva undici anni, che sa camminare lentamente e per un tratto appoggiandosi a un bastone e a un braccio amico, e che per il resto si muove nella sua carrozzina. Viene da dire che è un così gran viaggiatore nonostante ciò. In realtà, lo è perciò. Se espressioni come “diversamente abile” suonano spesso ipocrite, eufemizzazioni di eufemismi, succede davvero che ci siano imprese debitrici di uno svantaggio. Una volta atterra in Sierra Leone, dov’è andato per conoscere la tragedia dei bambini soldato, il comandante dell’aeroporto lo indica con un’aria grave. Forse i documenti non sono in regola? In realtà quello sta chiedendo come mai abbia avuto la polio, che è una malattia dei neri e non dei bianchi, allora gli spiegano che si è ammalato in Europa, quando non c’era il vaccino, e che ora col vaccino si può sconfiggere la polio anche in Africa. Il comandante si congratula con lui: è il primo bianco con la polio che ha visto in Africa. In Sierra Leone va nel quartiere degli amputati: «E chi aveva le braccia e non aveva le gambe aiutava chi aveva le gambe e non aveva le braccia…». Un’altra volta è in Congo, a Goma, il centro della immane guerra di Stati di tribù e di bande che infierisce nel paese. Visita un campo profughi “spontaneo” di decine di migliaia di persone. «Non c’erano strade…, mi sono trovato spinto da un centinaio di bambini per i quali la carrozzina era una specie di grande giocattolo inspiegabile, perché i bianchi non vanno in giro in carrozzina». C’è chi viaggia per aiutare il prossimo, e chi aiuta il prossimo per viaggiare: Toschi le due cose. In Sudafrica, un Mandela incuriosito chiede che cosa spinga la Toscana a impegnarsi contro l’Aids nel suo paese. Alla fine degli anni Novanta l’Algeria è sconvolta da un terrorismo islamista e una guerra civile che costeranno forse centomila vittime in una decina d’anni. È come una staffetta tragica di “guerre”: dalla ex-Jugoslavia al Ruanda, all’Algeria, all’eterna Palestina. E di inerzie, omissioni, complicità. In Algeria, qui dirimpetto, vanno in pochissimi: c’entra una situazione torbida, ma soprattutto una viltà. Toschi va per la prima volta a Tibhirine, nel monastero dell’eccidio, e poi all’ospedale di Medea, e anche lì trova i bambini amputati. Uno, Ranì, ha perso una gamba su una mina. Una protesi lo rimetterà in piedi; una mutilazione mal curata l’avrebbe condannato. Toschi sa che cosa vuol dire rimettersi in piedi, e potersi muovere. «Mia madre – dice – non si è mai vergognata di me»: frase bella e terribile. Sua madre ha fatto sì che avesse la stessa vita dei suoi coetanei, nel paese della Lucchesia in cui è nato. La conquista più importante viene, imprevista e forse insperata, in una tavolata di studenti della Cattolica. Si fanno scherzi, il primo della fila versa acqua sulla tovaglia tenuta sollevata dagli altri in modo da farla scorrere fino a bagnare l’ultimo. Massimo è benvoluto da tutti, e gli scherzi così lo risparmiano. Però un giorno una ragazza del gruppo riempie una caraffa d’acqua e la versa sulla testa di Massimo, stupendo tutti. Anche lui, che è stato trattato alla pari degli altri. La ragazza diventerà sua moglie, la madre di sua figlia, la compagna dei suoi viaggi, la donna coraggiosa che per anni combatterà una propria inesorabile malattia. Ha un modo speciale di combinare i grandi ideali con gli episodi minimi, Toschi. Gli chiedono di venire in Consiglio in giacca e cravatta: me la metterò, risponde, quando avrete abolito gli scalini che impediscono a un disabile di entrare in carrozzina. Non sono cattivi, spiega, i responsabili che ignorano le barriere, sono semplicemente ciechi: non vedono gli scalini. In un’Aula Magna è invitato a parlare con ministri, rettori eccetera: c’è uno scalino che si oppone. «Si pensa che il disabile, oltre a essere disabile, è anche un po’ scemo. Quindi non gli toccherà mai di parlare dal palco… In quel convegno si voleva risolvere il problema del clima, e non si era neanche in grado di risolvere il problema di uno scalino». Si è diversamente abili, con gli scalini. Toschi ha calcolato che nei due anni di ginnasio, «che era al secondo piano, ho fatto ogni giorno per due volte 72 scalini a salire e 72 a scendere, in totale 288 per 200 giorni all’anno. Complessivamente circa 50mila scalini…». Ho conosciuto Toschi in galera, ho pensato che i detenuti contano i passi e i giorni come lui i giorni e gli scalini. Quando Giovanni XXIII al suo primo atto visitò i bambini malati e i carcerati, gli sembrò che si rivolgesse anche a lui. Andò, con altri di Lucca, a Barbiana da don Milani, che gli diede un posto d’onore al suo fianco, poi li interrogò sulla città, la sua tradizione “bianca”, loro farfugliarono e don Milani si sbrigò a metterli alla porta, «e aveva ragione».
Da La repubblica