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"Basta «strane» maggioranze", di Claudio Sardo

No, il governissimo no. Se il Parlamento dovesse rispondere al voto di domenica e lunedì con la riproposizione della «strana» maggioranza, sarebbe un suicidio per il Paese e forse per le stesse istituzioni. Non c’è alcuna superbia, né disprezzo dei numeri in questa considerazione. Semplicemente l’alleanza tra Pd e Pdl verrebbe percepita come un patto difensivo e di potere, per di più precario e in contrasto con gli umori di fondo – la domanda di cambiamento, la sfiducia, la paura degli effetti sociali della crisi – che gli elettori hanno manifestato con forza.
Se è vero che l’esito incerto delle elezioni ci ha drammaticamente spinto sulla via della Grecia, è ancora più vero che un governo di Grande coalizione oggi ci farebbe correre lungo quella strada verso un esito che purtroppo appare già segnato: la chiusura in un fortino dei partiti che hanno avuto esperienze di governo nazionale e la contrapposizione sempre più radicale delle forze anti-sistema, che verrebbero spinte a loro volta per inerzia in una dimensione sempre più anti-europea. Proprio la Grecia ha sperimentato questa catastrofe politica. E oggi appare incapace di ricostruire una democrazia funzionante, in grado di assicurare al tempo stesso il legittimo cambiamento, la sicurezza nazionale, il mantenimento degli impegni internazionali.

Chi pensa che Pd e Pdl, per senso di responsabilità, debbano ancora rinunciare alla loro alternatività politica in nome di un non meglio precisato interesse del Paese, farebbe bene a riflettere sul vuoto democratico che una simile intesa aprirebbe. E sulle conseguenze: la prima delle quali è proprio la rappresentazione della politica come del luogo dell’inefficacia e del malaffare, come la notte dove tutte le vacche sono nere, come la fine della destra e della sinistra. Sarebbe come non aver capito nulla di queste elezioni. Anzi, sarebbe come aver capito il contrario di ciò che gli elettori hanno voluto dire.
Certo, l’ingovernabilità resta una dimensione reale, concreta. Ma, dopo tanto disprezzo riversato sul Parlamento negli anni della seconda Repubblica, sarebbe forse opportuno recuperare un po’ della saggezza, e della flessibilità, che abbiamo conosciuto in tempi passati. I tempi di Aldo Moro, ad esempio, come ci ricorda Domenico Rosati in un articolo che pubblichiamo in un’altra pagina del giornale. Nel ’76 la Dc si assunse l’onere di una proposta di governo pur in presenza di un secondo vincitore alle elezioni, il Pci, e la legislatura partì con una convergenza molto limitata: le forze principali non rinunciarono alla loro alternatività ma trovarono il modo di esprimere, nella battaglia strategica, anche un sentimento nazionale.
È probabile che pure questa legislatura, senza una maggioranza omogenea alla Camera e al Senato, sia destinata ad un percorso breve. Ma ciò non vuol dire che sia condannata alla paralisi e all’inutilità. Può invece avviare un cambiamento, e anche rispondere ad alcune delle domande più sentite e urgenti dei cittadini. Il partito di maggioranza relativa può avanzare un suo progetto senza egoismi, senza trappole, senza ostilità preconcette verso gli avversari. Può anche accogliere alcune delle istanze che questi hanno esposto in campagna elettorale, raccogliendo su quelle basi il proprio consenso. Far nascere un governo di minoranza, con un programma limitato (e limpidamente formato in un confronto parlamentare), non è una rinuncia per alcuna forza politica. Non lo sarebbe per Grillo, che potrebbe portare a casa alcune delle sue bandiere. Non lo sarebbe per Monti, che fa della governabilità europea uno dei fattori identitari. Non lo sarebbe neppure per Berlusconi. E ognuno degli attori potrebbe, nel confronto in Parlamento sui singoli temi, conservare e sviluppare la propria autonomia politica in vista di nuove elezioni. Ovviamente al centrosinistra, che non ha vinto le elezioni ma è pur sempre arrivato primo, toccherà anche costruire le condizioni affinché i suoi avversari si sentano garantiti nelle istituzioni. Si dovrà insomma procedere all’elezione dei presidenti delle Camere in uno spirito di apertura, molto diverso rispetto al 2006, quando l’Unione fece bottino pieno sfruttando al meglio l’esigua maggioranza politica. Sia il Pdl che il movimento di Grillo, che la lista di Monti hanno tutti i titoli di chiedere per sé e per i loro rappresentanti gli uffici parlamentari più importanti: se Bersani si riserva di formulare una proposta di governo, che non contempli alleanze politiche preventive, non può che favorire un’assunzione di responsabilità istituzionale degli altri partiti.
Il rischio che la legislatura non nasca neppure è alto. Ma non è detto che le elezioni immediate siano ciò che il Paese chiede. In ogni caso, il no al governissimo non è affatto un presuntuoso rifiuto. È semmai la premessa necessaria affinché il confronto possa svilupparsi in un periodo di pericolosa incertezza e di indispensabile cambiamento istituzionale e sociale. Occorre fare le riforme. Senza riforme non sarà possibile alcuna ordinaria amministrazione. La politica non conosce tempi neutri. E tanto meno lo sono i periodi di crisi sociale, come quelli che stiamo vivendo. Ma siccome bisogna cambiare, siccome destra e sinistra devono mantenere la loro coerenza e la loro legittimità, è indispensabile che il governo futuro mantenga un suo profilo. E una sua responsabilità verso il Paese e verso chi, legittimamente, coltiva altre strategie. Un governo senza maggioranza, del resto, affida sempre una parte del suo destino ad altri. Tuttavia la dialettica democratica, in un Paese fondatore dell’Europa, non può annullarsi fino a scomparire. Altrimenti, perché lamentarsi del populismo crescente? Proprio la pigrizia delle grandi coalizioni – che da strumento eccezionale diventano l’alibi dell’impotenza politica – aiuta il populismo a diventare sempre più forte.

L’Unità 27.02.13

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