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"Più donne in Parlamento e nei cda grazie alle leggi e alla loro tenacia. Una ragione per una festa diversa, oggi, nell’Italia delle diseguaglianze", di Vera Schiavazzi

Nel giorno della Festa della Donna, c’è un genere di banca dati che vale più di qualunque altro. È quello che contiene le coordinate di signore pronte a prendere il potere, o almeno a provarci, entrando come un fiume in piena in migliaia di consigli di amministrazione piccoli e grandi, così come hanno appena invaso il Parlamento e potrebbero fare in ogni futura elezione. La Banca d’Italia, che nel 2012 aveva scelto di dedicare il capitolo “a tema” della relazione del Governatore proprio a questo argomento, ha lavorato per un anno, in collaborazione con la Consob, per “contare” le donne già entrate nei consigli di amministrazione, registrando un leggero aumento dal 10 all’11 per cento, quasi certamente collegato all’impulso ad adeguarsi alla legge del 2011 sulle “quote rosa” nelle società quotate e in quelle controllate da azionisti pubblici. A Milano, in poco più di un anno e mezzo di lavoro della giunta guidata da Giuliano Pisapia, le donne nei
sono salite dal 27 al 45 per cento. E due settimane fa il numero delle parlamentari è schizzato verso l’alto di dieci punti (dal 21 al 31, un trend più evidente alla Camera, dove si raggiunge il 32 per cento, che al Senato, dove si è arrivati a quota 30).
Le analisi dicono chiaramente che a questo risultato si è arrivati percorrendo due strade diverse: la doppia preferenza nelle primarie del Pd e il reclutamento di candidati giovani e neofiti del Movimento 5 Stelle. Definitivi o meno, i due indicatori, uno sancito per legge, l’altro promosso con il voto, disegnano una geografia italiana al femminile difficile da immaginare anche soltanto due o tre anni fa. «In politica, questo è un fenomeno ancora da studiare, specie per quanto riguarda il partito di Beppe Grillo — osserva Francesca Zajcick, docente di sociologia alla Bicocca e delegata di Pisapia per le Pari opportunità al Comune di Milano — Di certo c’è solo che la preferenza unica non favorisce le donne, come dimostrano le elezioni regionali lombarde, dove i voti si dovevano conquistare e il Pd è riuscito a eleggere solo due candidate ». Con la preferenza unica, infatti, contano i soldi che si è disposti a spendere, ma anche l’appartenenza a reti forti, come in Lombardia si sono confermate le grandi associazioni cattoliche, il sindacato o il fatto di essere già stati alla guida di un Comune. E le donne restano a casa. «Quanto ai gruppi parlamentari dei 5 Stelle — aggiunge Zajcick — dobbiamo augurarci che le tante giovani
donne delle quali stiamo imparando a conoscere il volto e il nome mantengano la promessa, cambiando l’immagine e la sostanza di una forza politica che fino a ieri, a cominciare dal linguaggio del suo leader, pareva fortemente maschile se non maschilista. Dei segnali incoraggianti arrivano dalla Sicilia».
Va detto però che, neo-elette in Parlamento a parte, essere giovani e donne sembra ancora rappresentare in Italia una doppia difficoltà. Alle prese con servizi tagliati e lavoro impossibile, forse non saranno loro a entrare nei cda, né a frequentare i corsi che spuntano un po’ ovunque per imparare a farlo. «La condizione lavorativa della maggioranza delle donne non è migliorata, anzi è relativamente peggiorata — dice Daniela Del Boca, docente di Economia all’Università di Torino e direttore di Child — Oggi in Italia lavora meno di una donna su due, eravamo al 47 per cento e siamo scesi un pochino, al 46.8, ultimi in Europa con l’eccezione di Malta. Se incrociamo l’essere donna con la giovane età, scopriamo che la disoccupazione giovanile è al 41,6 per cento tra le donne contro il 37,1 dei giovani uomini». Le possibili “ricette” sono già state elencate dalle studiose: per le mamme, più nidi, più voucher, part time dopo la nascita come in Francia, congedi condivisi tra padri e madri come in Svezia. E per le ragazze, politiche di istruzione che le sostengano nei percorsi che “pagano” di più, come ingegneria e economia, dove sono ancora molto sottorappresentate. Anche lasciando da parte ogni impietoso paragone con il nord Europa, dove i modelli culturali sono assai lontani dai nostri, basta guardare a Germania, Gran Bretagna, Francia. «Quello che bisogna scalfire — conclude Del Boca — è un mercato del lavoro rigido sommato a scarse o nulle politiche per le donne».
L’ingresso massiccio di donne nei luoghi dove si decide, tuttavia, potrebbe cambiare le cose. Le ricerche internazionali sono ancora controverse, solo la Norvegia ha accumulato una vera casistica (ma lì la quota obbligata di donne nei cda è del 40 per cento, e questa misura drastica e non graduale è criticata da molti ana-listi, che le attribuiscono gli effetti di avere abbassato il livello di competenza e costretto molte super-esperte a spostarsi freneticamente da una poltrona all’altra, occupando più ruoli). Ma le donne ai vertici aumentano il numero di donne anche alla base delle aziende.
Donna Redel, 60 anni, economista americana che ha collezionato più di un ruolo prestigioso, da managing director del Forum economico mondiale alla posizione di prima donna alla guida del Comex, la borsa merci di New York, ora guida a New York “Strategic 50”, una società che ha fondato con alcune colleghe. Racconta: «Appartengo a una generazione che per la prima volta ha
cercato di farsi strada ai vertici dell’economia. Per questo ora ho scelto di occuparmi di consulenza e di coaching, per insegnare ad altre donne, con workshop e seminari, come raggiungere posizioni di rilievo nel campo della produzione, della finanza e del business in generale. Personalmente non sono certa che le quote rosa siano una buona idea. C’è grande richiesta di donne qualificate, le aziende ci chiedono continuamente curriculum, ma le dirigenti sono solo il 30 per cento nelle imprese americane, mentre è donna la metà dei docenti universitari. Non è strano? Saremo soddisfatte solo quando la parità sarà effettiva e assoluta». Intanto però la massiccia iniezione di donne nei board italiani sta portando con sé effetti almeno in parte imprevisti: si riduce il numero delle poltrone, aumenta la quota delle consigliere indipendenti nelle grandi società, migliora l’efficienza (più riunioni dei consigli, e con un maggior numero di presenze).
È presto per i bilanci (l’onda lunga durerà fino a tutto il 2015, la legge prevede una prima tornata di nomine che porti il “genere meno rappresentato”, cioè le donne, a quota 20 per cento, per poi passare al 33 nei successivi due mandati) ma intanto già si intuisce che l’operazione-quote si tradurrà anche in una grande operazione-trasparenza, soprattutto nella politica locale, nelle miriadi — sono oltre 3.000 — di aziende di servizi dove gli azionisti pubblici, e i Comuni in primo luogo, sono ancora maggioranza. L’obiettivo è aumentare la competenza di tutti, anche se, come sottolinea Magda Bianco, che alla Banca d’Italia ha guidato la ricerca sulla presenza femminile nei cda, «i dati sulle aziende pubbliche mancano quasi del tutto, e occorrerebbe una nuova fase di studi per misurare gli effetti della legge».
Chi vuole può studiare. Nuovi network, come Valore D, si mobilitano e propongono decaloghi e corsi, la Women on Board Initiative ha pubblicato un elenco di oltre 3.500 donne pronte a occupare un posto in un cda. E l’Osservatorio dell’imprenditoria femminile di Unioncamere segnala che le imprese “rosa” resistono meglio delle altre alla crisi: nel 2012, in Lazio si sono registrate 1.149 nuove attività, 873 in Sicilia, 342 in Lombardia.
In the Boardroom è il titolo del corso, spalmato su un arco di 12 mesi, al quale iscriversi se si vuole partecipare all’assalto: una nuova classe di 35 donne è appena partita, per la prossima c’è tempo fino a aprile (Valore D e GE Capital). Difficile resistere alla tentazione.

La Repubblica 08.03.13

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“Ma la battaglia dei diritti va combattuta ogni giorno”, di MARIAPIA VELADIANO
C’è una promessa nell’aria. Riguarda le donne. Ed è difficile anche solo dirlo mentre la cronaca non finisce di aggredirci con le sue notizie di donne uccise. Eppure qualcosa capita e guai a non saper raccogliere i segni di un nuovo possibile, come se il futuro fosse già scritto dal passato. Abbiamo una parola nuova, femminicidio, che è orrenda ma parlante, capace di raccontare che il delitto qui è proprio legato al genere. Donne oggetto di violenza e malamore. Oggetti. E tutti ormai sappiamo e cerchiamo cause e soluzioni. Abbiamo un movimento nuovo, Se non ora quando, trasversale per età, cultura e anche per genere. Un’alleanza. Abbiamo avuto un governo, nato per chiamata e in ogni modo discusso, ma in cui le donne finalmente hanno avuto ministeri decisivi. Abbiamo un Parlamento nuovo, e sarà da vedere come saprà comporsi, ma nel quale le donne, a sorpresa, sono più rappresentate di quanto siano mai state. E questo è davvero qualcosa di non scritto. E questo sta capitando. Ma bisogna essere sentinelle sempre. Ce lo dice il piccolo libro, severo e tranchant, di Marilisa d’Amico, dal titolo che è una tesi,
La laicità è donna(L’asino d’Oro edizioni), e che racconta come in Italia ci sia un silenzioso, subdolo arretrare dei diritti delle donne. Che coincide con l’arretrare della laicità. È uno sprofondare senza quasi combattere. Si scivola verso un fondamentalismo legislativo che tradisce la natura profondamente laica e paritaria della nostra costituzione. E tradisce le donne soprattutto.
Laicità è «quella casa comune in cui i cittadini, credenti e non, si riconoscono nel metodo e nelle proprie, diverse, visioni della vita, senza tentare di prevaricare gli uni sugli altri». È credere nella libertà, nel primato della coscienza. Che è sacro anche per i credenti. È fiducia nel cittadino capace di libertà. Così la via breve che vorrebbe moralizzare i comportamenti attraverso una legislazione rigida rende una cattiva testimonianza al valore che difende. Non fosse altro che perché il valore si mostra debole proprio nel suo bisogno della forza per affermarsi. E la donna? È lei a rischiare di più dalla crisi della laicità. Marilisa d’Amico i suoi argomenti li prende soprattutto dalla storia lacerata della legge 194 sull’aborto e della legge 40 sulla fecondazione assistita che diventano percorso inesemplare di battaglie fra diritti strumentalmente contrapposti.
Ma la società in cui viviamo oggi conosce situazioni nuove di alterazione dei diritti. Legate al contesto di forte immigrazione femminile, ad esempio. Capita che le strutture a sostegno delle famiglie siano tremendamente insufficienti, che allora la cura di bambini e anziani sia privatizzata e delegata alle donne immigrate, che la appena, forse, conquistata fragile emancipazione delle donne italiane sia difesa al prezzo di quella delle donne straniere e che comunque tutta questa alleanza obbligata e barbara, nel senso di incivile, sia lì lì per essere travolta dalla crisi economica perché il bisogno materiale frulla i diritti, e le donne italiane tornano a casa, le straniere fuori, non si sa dove.
E insieme a questo capita anche che alcune lotte fatte in nome dei diritti delle donne, ad esempio quella contro il velo simbolo di “sottomissione”, siano di nuovo strumentali, in realtà battaglie condotte dalla sponda di un fondamentalismo occidentale che appare forte e rassicurante quando viene contrapposto a un fondamentalismo islamico percepito come speculare e contrario. E sono sempre le donne le prime a patirne. Un arretramento.
Che fare? Serve qualcosa di tremendamente fuori moda,scrive Marilisa d’Amico:una«normazione leggera», un «bilanciamento dei diritti», serve «fiducia» nella libertà. Serve quella «democrazia paritaria» che vede le donne rappresentate nella politica tanto quanto gli uomini, non perché siano portatrici di un interesse particolare ma perché «rappresentano un modo di essere del genere umano». Non siamo al punto d’inizio, perché qualcosa di diverso lo abbiamo vissuto in quella straordinaria apertura di credito a un mondo più giusto che ha attraversato la seconda metà del secolo scorso, e abbiamo intravisto che meglio si può. Certo serve qualcosa di quasi inaudito oggi, cioè lo strumento di una razionalità discorsiva e misurata, per ricostruire l’arte del supremo comporre, di una politica che non sia più solo un facile far fuori. Serve una pacificazione che passi attraverso la difesa della laicità delle istituzioni. E ci si può chiedere quanta della violenza agita, sulle donne e in ogni campo, sia figlia della violenza vista, esibita, resa spettacolo proprio nei luoghi della scelta democratica.
Certo, fino a due settimane fa molte di noi hanno pensato che fosse finalmente arrivato il momento di ricostruire, dopo l’orgia ventennale di una politica che il femminile lo ha usato come attributo del potere. Adesso sappiamo che si tratta ancora di resistere resistere resistere. E anche se la laicità è donna, ad averne poi vantaggio è il cielo intero e non solo la metà dedicata. Perché bisogna vivere finalmente. Semplicemente vivere.

La Repubblica 08.03.12