attualità, politica italiana

"La guerra di Grillo contro i giornalisti", di Giovanni Valentini

È l’incontinenza verbale di un attempato ex comico che dà sfogo al suo delirio di onnipotenza politica, proprio come avevano già fatto in passato Bettino Craxi e più recentemente Silvio Berlusconi. Un attacco indiscriminato all’intero sistema dell’informazione, senza distinzione di nomi e di persone, di ruoli e di funzioni, nella logica persecutoria di un razzismo mediatico che rischia ormai di sconfinare nello squadrismo mediatico.
Dai comizi in piazza “off limits” alle conferenze-stampa senza domande, attraverso l’artificiosa trasparenza del videostreaming d’occasione, siamo passati definitivamente alle invettive e alle intimidazioni. Non si contesta più un titolo, un articolo o un commento. Si aggredisce direttamente la funzione stessa della stampa, in un tentativo continuo di delegittimazione che nega non tanto il dovere dei giornalisti di informare, quanto il diritto dei cittadini di essere informati e di scegliersi liberamente come e da chi.
La nostra categoria professionale, insieme a tante altre sulla scena sociale, non è certamente immune da colpe, vizi e difetti. E ognuno di noi è chiamato a fare autocritica, per la propria parte di responsabilità. Ma non si può tollerare oltre un’offensiva senza quartiere che usa il napalm del turpiloquio per insultare, offendere e minacciare.
Fra le tante accuse rivolte ai giornali, intesi qui come il sistema dell’informazione composto dagli editori e dai giorna-listi, ce n’è una in particolare tanto ricorrente quanto manifestamente infondata: ed è quella lanciata come una crociata dai Cinquestelle in ordine ai contributi statali. Un’altra mistificazione mediatica, al pari della vulgata propagandistica – smentita dai risultati ufficiali delle ultime elezioni – secondo cui il M5S sarebbe il primo partito.
Cerchiamo allora di fare chiarezza, una volta per tutte, nell’interesse dei cittadini, lettori ed elettori. I contributi statali all’editoria – branditi come una clava contro i giornali d’informazione, compreso il nostro – riguardano ormai soltanto tre tipologie di testate: gli organi dei partiti politici, quelli delle cooperative di giornalisti e infine quelli delle minoranze linguistiche. L’elenco completo, con i rispettivi importi, è pubblico e chiunque può consultarlo sul sito del Dipartimento dell’editoria (http://www.governo.it/die).
L’8 marzo scorso la Fieg ha diffuso attraverso le agenzie di stampa un comunicato che, a riprova di quanto sia potente la Federazione degli editori, non ha trovato molto spazio sui giornali. Vi si legge fra l’altro che la grande maggioranza dei quotidiani, pari al 90% delle copie diffuse in Italia, non riceve contributi diretti. E quelli indiretti, sotto forma di agevolazioni postali per la spedizione degli abbonamenti, sono cessati dal marzo 2010.
Anche questa, dunque, è una questione che riguarda soltanto la “casta”, cioè il ceto politico e i suoi giornali fantasma. Ed è senz’altro opportuno occuparsene, sia perché i partiti continuano a percepire finanziamenti pubblici che il referendum popolare del 1993 aveva abrogato, sia perché i contributi statali alterano la libera concorrenza sul mercato editoriale.
Ne avevamo ampiamente trattato nella prima pagina del nostro supplemento “Affari & Finanza” pubblicato il 22 ottobre 2007, con un articolo a firma del sottoscritto, sotto il titolo “La torta dei fondi all’editoria”. Già sei anni fa, denunciammo la distorsione prodotta dai contributi statali ai quotidiani di partito, dall’“Unità” (trasferita poi con tutti i suoi debiti all’imprenditore sardo Renato Soru) a “La Padania”; a quelli dei movimenti politici, dal “Foglio” al “Riformista”; a quelli delle cooperative, dal “Manifesto” a “Libero” o di fondazioni ed enti morali, tra cui anche “Avvenire”.
Fatto sta che oggi l’editoria privata non riceve più contributi diretti e quelli indiretti (compresi i contributi sull’acquisto della carta, disposti a suo tempo come “una tantum” per fronteggiare una crisi della materia prima che aveva fatto impennare i prezzi sul mercato internazionale) sono terminati da tre anni. Non si può chiedere, perciò, l’abolizione di qualche cosa che non esiste. A meno di voler abolire in realtà il pluralismo dell’informazione, posto a tutela e garanzia dei cittadini:
quelli veri che restano fuori del Parlamento.

La Repubblica 30.03.13