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"Libere di vivere", di Michela Marzano

La Convenzione di Istanbul pone per la prima volta la questione delle violenze di genere come un problema strutturale: non si tratta solo di punire i colpevoli e proteggere le vittime, ma anche di prevenire ogni forma di discriminazione, affinché l’uguaglianza tra gli uomini e le donne diventi reale. L’unica vera uguaglianza che non è l’identità e consiste nell’uguale rispetto di ogni persona. Nonostante le molteplici differenze che ci caratterizzano.
Tutti e tutte uguali anche se di sesso diverso, anche se di diverso orientamento sessuale. Ma per capire la complementarietà tra uguaglianza e diversità, occorre educare fin da piccoli i nostri figli al rispetto dell’alterità, insegnando loro la gestione dei conflitti senza ricorrere alla violenza che, per definizione, cancella e distrugge.
La violenza non può essere del tutto eliminata. La pulsione dell’aggressività fa parte della condizione umana e sarebbe illusorio pensare di debellarla del tutto. Come ogni pulsione però, come ci insegna la psicanalisi, anche l’aggressività deve essere contenuta, e per farlo occorre costruire attraverso l’educazione quelle che Freud chiama le dighe psichiche: pudore, disgusto e compassione. Insegnare cioè che l’altro è un nostro simile, che sente e soffre come ognuno di noi, e che è una persona che, in quanto tale, deve essere rispettata. “Persone” e non “cose”, dunque, dotate di “dignità” e non semplicemente di un “prezzo”, come direbbe Kant. Persone che meritano di autodeterminarsi e affermare i propri desideri, i propri bisogni e la propria libertà, senza che qualcun altro decida al posto loro, cerchi di controllarle, e le distrugga quando non si sottomettono.
Il problema strutturale che pongono le violenze di genere è antropologico: per cultura e per tradizione, alcuni uomini pensano di incarnare la “norma” e di poter essere “padroni”; in parte destabilizzati dall’autonomia femminile, non sopportano che questi “oggetti di possesso” possano diventare autonomi; in parte insicuri e incapaci di sapere “chi sono”, accusano le donne di mettere in discussione la propria superiorità. Un problema identitario quindi, da non sottovalutare, che si traduce in un problema relazionale. Ecco perché dietro la questione della prevenzione, c’è soprattutto la necessità di riscrivere la grammatica delle relazioni non solo tra gli uomini e le donne, ma anche tra gli uomini e gli uomini, le donne e le donne.
Le donne, oggi, chiedono solo di essere trattate come gli uomini, non perché siano identiche a loro, ma perché sono ugualmente degne di rispetto e di considerazione. La ratifica della Convenzione di Istanbul è solo il primo passo. Gli altri dovranno seguire per costruire una società in cui nessuna debba più pentirsi di essere nata donna, ma sia al contrario fiera di essere uguale e diversa dagli uomini. Libera di essere se stessa. Libera di vivere.

La Repubblica 29.05.13

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“No al femminicidio, nel nome di Fabiana”

La Camera approva all’unanimità la Convenzione di Istanbul. Boldrini: “Segnale importante”
Cinquecentoquarantacinque sì contro la violenza sulle donne. Nel giorno dell’addio a Fabiana, massacrata e uccisa a 16 anni dal fidanzato, i deputati della Camera, ricordandola in tutte le dichiarazioni di voto, hanno ratificato all’unanimità la convenzione del Consiglio d’Europa siglata a Istanbul nel 2011 «per la prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti sulle donne e la violenza domestica». «Una ratifica doverosa che non lenisce il senso di angoscia pensando alla vita spezzata di Fabiana e di tutte le donne vittime di femminicidio », ha sottolineato da Corigliano la ministra alle Pari Opportunita Josefa Idem. «Un segnale importante arrivato nel giorno dei funerali di Fabiana», ha detto Laura Boldrini, presidente della Camera.
La Convenzione è il primo strumento internazionale che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro ogni violenza. Un provvedimento che ora dovrà passare al vaglio del Senato e che per essere vincolante dovrà essere ratificato
da almeno dieci Stati: l’Italia è il quinto, dopo Montenegro, Albania, Turchia e Portogallo. Senza contare che, per diventare effettivo, dovrà essere finanziato dal governo altrimenti resteranno solo parole, come hanno ricordato diversi deputati bipartisan parlando dei centri antiviolenza chiusi per mancanza di fondi.
Composta di 81 articoli la Convenzione considera la violenza sulle donne — da quella psicologica a quella fisica ed economica: dallo stalking all’infibulazione — alla stregua di una violazione dei diritti umani. Tra gli obiettivi quello di predisporre «un quadro globale di politiche e misure di protezione e di assistenza delle vittime e di promuovere la cooperazione internazionale. I Paesi
che sottoscrivono la Convenzione dovranno promuovere e tutelare il diritto di tutti a essere liberi dalla violenza, nella vita pubblica e privata. Condannano ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e adottano misure legislative per prevenirla. Prevedendo sanzioni, abrogando leggi e pratiche che discriminano le donne. Oltre a varare misure legislative destinate a «prevenire, indagare, punire i responsabili e risarcire le vittime di atti di violenza».

La Repubblica 29.05.13

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“Le lacrime e la rabbia di Corigliano telefonata tra mamme: perché l’ha uccisa?”, di
CONCHITA SANNINO

Migliaia al funerale. Il preside: “Quel ragazzo ha l’inferno dentro”. Tanti applaudono, lei no. Alza la voce. «Basta. Dobbiamo cominciare anche noi, dobbiamo denunciare. Non abbiate paura. Dobbiamo chiedere giustizia!». Un grido dal silenzio nella folla di Corigliano, mezz’ora prima dei funerali e dei tanti applausi che seguiranno. È la voce di un’anziana, una calabrese vestita di nero rompe la liturgia adolescenziale dell’addio, e forse restituisce l’unico possibile pegno a questa bara bianca che se ne va verso un cimitero della Piana di Sibari, quel che resta di Fabiana Luzzi, ragazzina di 15 anni picchiata, pugnalata, poi bruciata viva dallo studente-carnefice a cui si sentiva legata. È quel Davide, ex nuotatore, ex arbitro, ex ragazzo con 8 e 9 in pagella all’Istituto per Geometri, che ormai, dopo l’udienza di convalida dinanzi al gup, da ieri entra nel carcere minorile di Catanzaro con l’accusa di omicidio volontario aggravato.
«Io non sono riuscita a diventare madre, ma non ce la faccio a pensare che dobbiamo subire», spiega l’anziana donna senza nome, che spinge le altre a denunciare le violenze. Il suo appello scuote per un attimo la ministra per le Pari Opportunità Josefa Idem, che in quell’attimo scende dall’auto e, letteralmente in punta di piedi, entra in casa di Fabiana, stringe i genitori, si apparta con loro, portando il «cordoglio mio personale e di tutto il governo». Troverà due genitori, Rosa e Mario, «molto composti, sereni nonostante la grande prova», e tre sorelle giovani e belle, oggi sfigurate dallo shock, che riservano anche al ministro una rispettosa accoglienza. Solo poche ore prima, però, da questa casa parte la telefonata dettata dall’impotenza, e accende il clima già cupo nella casa di Davide l’assassino. Accade in pochi secondi, Rosa getta lo sguardo sull’ennesimo tg che ripropone il sangue della sua Fabiana nel luogo
dell’assassinio: si scaglia sul telefono, chiama quell’altra madre, ma solo per imprecare, piangendo. «Ma hai visto che ha fatto? Hai visto che cosa ha combinato? Perché ha deciso che mia figlia doveva stare in una bara?». Un volto che si ricompone di nuovo per i funerali. Il dolore di massa si scioglie al Palazzetto dello Sport, gremito di oltre 5mila persone. Con il corredo iconografico del lutto dell’innocente: palloncini bianchi, gigantografie di Fabiana, t-shirt con il suo sorriso o con la posa di danzatrice, colombe che volano. Ma basterà a evitare altre bare in fila?
Tra i volti gonfi di pianto, tanti ragazzi emigrati che protestano per la fine di Fabiana, ma anche per chi, dopo questa croce, vuole «ridurre l’allarme delle violenze sulle donne a un fatto calabrese». Tanti citano la lettera di una manager di una multinazionale nata da queste parti che, pur con solidale dolore, aveva raccontato il sentimento di chi fugge da Corigliano. «Noi invece moriamo dalla voglia di tornare — dice Paolo — qui c’è gente che si fa un cuore così e si costruisce un futuro degno, femmine e maschi». Ma c’è uno sguardo di padre che, tra la folla, scuote la testa sugli applausi. È il preside della scuola frequentata dall’assassino, è Michele Grande, un docente (e avvocato) dalle spalle robuste. Che non ha paura a dire cose scomode, mentre volano le colombe. «Quel Davide aveva l’inferno, dentro: questa è la verità, scrivetela. Sarà anche diventato un mostro, ma aveva una situazione familiare di sofferenza, un rapporto molto duro e conflittuale in quella casa, su cui non mi permetto di intervenire. Ma era solo con i suoi fantasmi. E anche lui, benché vivo, è sepolto. Eppure di segnali ne aveva dati e noi avevamo provato a comunicarlo ai genitori, in tutti i modi, anche sospendendolo ». E aggiunge una circostanza che mette i brividi: «Alcuni ragazzi della scuola hanno riferito che, venerdì, dopo la scomparsa, erano andati da Davide. Gli avrebbero sentito dire che aveva fatto alla sua ragazza cose che alcuni padri non sanno fare con le loro mogli ». Dolore, domande. Eppure ci sono altre morti che non vengono neppure viste. A Rossano, dieci chilometri dal cordoglio di massa di Corigliano, un altro corpo di donna è stato trucidato da un amante-carnefice. Lei si chiamava Florentina Boaru, aveva solo 18 anni, accoltellata da un giovane calabrese (sposato e con figli), anche lei dopo una lite: ma era romena, e viveva sulla strada. E per lei non c’è stata né commozione, né palloncini. Solo un’altra croce in fondo alla lista.

La Repubblica 29.05.13