attualità, politica italiana

"Il paradosso che può aiutare il cambiamento", di Luigi La Spina

Parte oggi, con la convocazione al Quirinale per l’insediamento della commissione dei 35 saggi, il nuovo tentativo di cambiare norme importanti della Costituzione italiana. Di una grande riforma del nostro assetto istituzionale, ormai, si parla da oltre 25 anni e da un quarto di secolo sono falliti tutti i tentativi per riuscirci. La domanda che gli italiani si stanno facendo in questi giorni, perciò, è ovvia e parte da un’osservazione di puro buon senso: visto che il Paese soffre la più grave crisi economica dalla nascita della Repubblica ed è attraversato da tensioni sociali molto forti è davvero questo il momento più opportuno per provarci ancora una volta? Non sarebbe meglio che il governo si concentrasse sull’emergenza più preoccupante per la vita quotidiana di tanta gente e rimandasse il grande progetto di riforma a tempi migliori?

Il dubbio non solo è legittimo, perché il buon senso è una virtù, nonostante la sua cattiva fama presso intellettuali e politici nostrani, ma è anche opportuno, perché la comprensione dei cittadini, in una democrazia, dovrebbe costituire la spinta fondamentale per varare buone riforme, soprattutto in argomenti così delicati.

La risposta a questa domanda, però, potrebbe essere altrettanto semplice: l’attuale sistema istituzionale, politico e partitico ha dimostrato, ormai, la sua incapacità ad affrontare, con la radicalità e l’urgenza che proprio la crisi richiede, quei cambiamenti necessari per rimettere in moto un’economia e una società italiana che, come ha ricordato il governatore di Bankitalia qualche giorno fa, sono rimasti drammaticamente indietro rispetto all’evoluzione del mondo.

È convinzione abbastanza comune che le corporazioni di interessi nel nostro Paese, divise tra di loro, ma unite nella volontà di difendere ad oltranza le nicchie di privilegi raggiunte, siano talmente consolidate, talmente arroganti da resistere a qualunque tentativo di cambiamento operato dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Coalizioni di centrodestra e coalizioni di centrosinistra, se analizziamo un po’ più in profondità i risultati concreti ottenuti in tale direzione, sono state costrette ugualmente a una ritirata ingloriosa. Lo schieramento di Berlusconi ha fallito nel tentativo di una rivoluzione liberale che, tanto proclamata a parole, si è conclusa, nei fatti, nel nulla. Quello capitanato da Prodi, sulla parola d’ordine del riformismo democratico, si è dovuto arrendere non solo davanti al solito massimalismo conservatore di una parte della sinistra italiana, ma perfino davanti al ribellismo dei taxisti romani. La speranza, perciò, è quella che solo un rafforzamento della politica, nella sua capacità di decisione e, soprattutto, nella forza di attuare le decisioni prese, potrebbe sconfiggere il «male oscuro» dell’Italia in questi anni a cavallo del secolo, l’immobilismo della società che colpisce soprattutto i nostri giovani e la stagnazione dell’economia che la sta portando a un irreversibile impoverimento.

Dal primo dubbio nasce, però, una seconda domanda: questo governo Letta, così esposto ai contrasti politici e ideologici di una maggioranza politica «degli opposti», sotto l’incubo delle vicende giudiziarie di Berlusconi e di fronte a drammatici problemi economico – sociali, come quelli, ad esempio, della sorte dell’acciaieria e, in generale, della manifattura italiana, non sarà ulteriormente indebolito dalle dispute istituzionali che arriveranno nei prossimi mesi, a cominciare dall’ipotesi del presidenzialismo?

Anche questo quesito è fondato sul buon senso, ma la risposta può essere meno pessimistica dell’apparenza, almeno per due ragioni. Letta, con l’avallo di Napolitano, ha dato al progetto della riforma costituzionale una scadenza temporale precisa, diciotto mesi. In questo modo, ha costretto il Parlamento a porsi un traguardo abbastanza ravvicinato per riuscire a vararlo, ma ha anche allungato a un anno e mezzo la durata minima del suo governo. Insomma, con una sola mossa, ha cercato di indebolire sia coloro che vogliono impedire i cambiamenti istituzionali con lo stallo di infinite logomachie sui grandi principi, sia coloro che desiderano interrompere al più presto il primo esperimento italiano di «grande coalizione».

La seconda ragione di parziale e prudente ottimismo sugli effetti delle discussioni parlamentari sulla riforma per la stabilità governativa, ma anche sulle possibilità dell’accordo, risiede nella necessità che tali cambiamenti abbiano una larga condivisione tra i partiti che compongono le Camere. La ricerca obbligata di una intesa sul piano delle modifiche istituzionali potrebbe costituire il collante indispensabile per costringere quella «maggioranza degli opposti» a trovare tutti quei compromessi quotidiani che saranno indispensabili, nei prossimi mesi, per affrontare l’emergenza economica. Ecco perché proprio la fragilità del governo Letta e le conseguenze di una crisi del suo ministero, con le annunciate dimissioni di Napolitano e le probabili elezioni anticipate, potrebbero pure aiutare a trovare, questa volta, quell’accordo sulla riforma costituzionale che si cerca da 25 anni. È un paradosso, ma di paradossi vive la democrazia italiana.

La Stampa 06.06.13