attualità, politica italiana

"La normalità del non voto come negli Usa", di Elisabetta Gualmini

In Italia non andare a votare è diventata una cosa normale. Siamo tutti un po’ più americani. Metà dei cittadini – anche meno – ci vanno stabilmente, l’altra metà spesso sta alla finestra a guardare. Nemmeno il sindaco, il leader politico più a contatto con le magagne della vita quotidiana ci appassiona. Per andare al seggio ci vogliono buonissimi motivi, solide ragioni. L’abitudine non è più un movente idoneo.
Nemmeno nel Nord, un tempo primo della classe, quando il senso civico si traduceva in senso del dovere elettorale, il quale a sua volta spingeva a «turarsi il naso» per sostenere il meno peggio.

Sta qui uno dei tre fattori che spiegano la vittoria netta del centrosinistra: undici comuni capoluogo su undici. Lo avevamo già visto all’opera durante il primo turno delle amministrative. È il fenomeno dell’astensionismo asimmetrico: la fuga a gambe levate dalla politica che però stavolta colpisce in maniera di gran lunga prevalente il centrodestra. Un elettorato, quello del Pdl, meno incline a mobilitarsi secondo logiche di fedeltà ad un partito (semmai a un leader che questa volta non c’era) rispetto a un elettorato che, anche se si rimpicciolito, non sceglie facilmente la via dell’uscita. L’hanno spiegato bene D’Alimonte e Cataldi sulle pagine del «Sole 24 Ore» con riferimento a Roma. Rispetto al primo turno delle comunali del 2008, Marino ha perso il 33% dei voti ottenuti allora da Rutelli, mentre Alemanno è stato abbandonato addirittura dal 46% degli suoi elettori di cinque anni fa, i quali sono rimasti quasi in blocco a casa. Un fenomeno simile si è ripetuto anche al secondo turno, aumentando il divario tra i due, quando sono arrivati anche un po’ di voti aggiuntivi, ma quasi solo a Marino, da elettori che al primo turno avevano scommesso su candidati usciti di scena. In dimensioni inferiori, sono capitate cose simili in molte delle città al voto. Perché quasi dappertutto i candidati locali del centrosinistra apparivano stavolta più presentabili.

A loro vantaggio, hanno giocato al secondo turno anche le crescenti aspettative di vittoria. Al primo, complici i sondaggi basati sulle intenzioni di voto in ambito nazionale, tutti favorevoli a Berlusconi, gli elettori «attivi» del centrodestra potevano nutrire buone speranze che i loro candidati ce l’avrebbero fatta. Ma i risultati hanno segnalato un vento in direzione contraria, con l’effetto di deprimere ulteriormente i potenziali sostenitori del Pdl e rimotivare quelli del Pd.

Non solo. E così arriviamo dritti ad un altro fattore che ha portato i candidati Pd a vincere. La maggiore capacità di includere gli elettori di candidati arrivati terzi o quarti, anche nei capoluoghi in cui vi era pochissimo scarto tra primo e secondo. Il Pd è riuscito a creare cartelli e accordi locali ad hoc contro i candidati avversari. In molti casi il flusso dal Movimento 5 stelle o da liste civiche è stato «naturale», non ha avuto bisogno di essere favorito da accordi tra ceto politico, ha seguito la logica descritta dalla teoria di Anthony Downs, del voto dato al candidato meno distante rispetto al preferito. In altri «la politica» ha fatto la sua parte.

Ad Avellino, ad esempio, la vittoria del Pd è l’esito di un referendum contro il candidato di Ciriaco De Mita (Udc) che ha visto ordinatamente confluire i voti del Pdl, contraddicendo Downs (!), sul candidato Pd, un po’ come ad Imperia, dove la débâcle di Erminio Annoni va trasferita dritta dritta al suo principale sponsor Scaiola. A Brescia, invece, dopo la deludente (o degradante) prova di governo del sindaco uscente, il candidato Pd ha stretto una formale alleanza con una lista «civica» guidata dall’ex-socialista Laura Castelletti.

Insomma, il centrosinistra ha superato la prova, con candidati spendibili a livello locale, di gran lunga più credibili rispetto ai competitori pidiellini, a leghisti ormai fuori tempo massimo, ai 5 stelle introvabili. La previsione del premier Letta che aveva azzardato un risultato «molto positivo» da queste elezioni – se intesa nel senso di segnare uno stop all’incontenibile propensione di Berlusconi a scrivere l’agenda del Governo, in quanto azionista in ascesa – si è rivelata azzeccata.

La Stampa 11.06.13