attualità, politica italiana

"Notizie buone e notizie cattive", di Paolo Soldini

Le metafore calcistiche usate da Letta per commentare gli esiti del Consiglio europeo hanno una loro suggestione, ma rischiano di semplificare un po’ troppo quel che è accaduto a Bruxelles e di lasciare più di una domanda su quello che accadrà nel prossimo futuro. L’Italia ha vinto la partita decisiva sull’occupazione giovanile? L’ha vinta certamente nel senso di essere riuscita a imporre il tema a un vertice che era stato programmato per occuparsi d’altro. Ma l’ha vinta anche per essere riuscita a modificare quanto sarebbe necessario la politica in fatto di occupazione dei governi e delle istituzioni di Bruxelles? Qui il giudizio dev’essere più sfumato. Il Consiglio ha accettato la richiesta di Roma di concentrare nei primi due anni i fondi a disposizione del programma Youth Guarantee (6 miliardi) e ha aggiunto dell’altro: poco più di due miliardi, reperiti grazie alla flessibilizzazione del bilancio comunitario sulla quale torneremo.

Con un calcolo del quale non ha spiegato i dettagli, Letta ha detto che, di quegli 8 miliardi, un miliardo e mezzo sarà a disposizione dell’Italia. È un po’ difficile capire come possa essere così alta la quota italiana, anche tenendo conto del fatto che il grosso della disponibilità andrà distribuito solo tra i 13 Paesi in cui la

disoccupazione giovanile supera il 25%. Il capo del governo di Roma ha fatto anche sapere che il piano nazionale con il quale si era presentato a Bruxelles ha avuto il plauso di altri governi e, in particolare, sarebbe piaciuto ad Angela Merkel. Un buon incoraggiamento considerato il fatto che, come si è visto, il decreto relativo non ha invece raccolto l’unanimità dei consensi in patria.

L’intesa su Youth Guarantee è stata resa possibile dal compromesso sul bilancio comunitario, che è stato insidiato fino all’ultimo minuto dalle pretese di David Cameron. Qui c’è l’altro elemento di novità uscito dal Consiglio. Il Parlamento europeo ha ottenuto che si adotti il principio della flessibilità che rende possibile trasferire da un capitolo all’altro e/o da un esercizio al successivo i fondi non spesi. Da quanto si è capito, questa possibilità sarebbe stata utilizzata subito per trovare i circa due miliardi aggiuntivi di cui s’è detto. Bene. Resta però l’assoluta insufficienza di un bilancio che è stato addirittura decurtato rispetto alle proposte della Commissione – 1030 miliardi tagliati a 960, cioè il minimo assoluto dell’Unione a 27 – e proprio sui capitoli essenziali per la ripresa della crescita: ricerca, innovazione, lotta alla povertà. Tanto più che il Consiglio non ha voluto «flessibilizzare» i 63 miliardi che erano avanzati dal bilancio precedente e che sono tornati per due terzi agli Stati nazionali. Un passo avanti e uno indietro, insomma, e al di là delle cifre è il principio che preoccupa. Non ci sono solo le intemperanze di Cameron: anche gli altri leader, e soprattutto Frau Merkel, sono incardinati sull’idea che per il bilancio dell’Unione debbano valere le regole della rigida austerità dei bilanci nazionali: meno soldi ci sono e meglio è. Per un pugno di euro si rischia così di rendere inutilizzabile uno dei pochi strumenti che l’Unione in quanto tale dispone per finanziare misure di crescita.

L’altro strumento è la Banca europea per gli investimenti. Sulla Bei, per tornare alla metafora, Letta sostiene che l’Italia avrebbe «pareggiato». Il calcio, si sa, non è una scienza esatta, ma il giudizio del presidente del Consiglio appare troppo ottimistico. Gli impegni che l’istituto di Lussemburgo si sta assumendo dopo la ricapitalizzazione di 10 miliardi effettuata recentemente sono decisamente insufficienti e, soprattutto, sono ispirati da una logica disastrosa: sotto la direzione del liberale tedesco Hoyer, la Bei considera suo compito prioritario mantenere il proprio rating sulla tripla A e quindi evita accuratamente di finanziare progetti nei Paesi a debito alto. Una logica «bancaria» e non «politica» che viene esplicitamente rivendicata dai Paesi «forti». Il governo italiano, insieme con quello francese, vuole ribaltare questa impostazione, ma per farlo dovrebbe adottare una posizione molto più decisa, anche a costo di aprire un contenzioso con Berlino. Ultima notazione. A dispetto di qualche voce della vigilia l’Italia non è riuscita ad ottenere nel vertice neppure un impegno pour parler sullo stralcio degli investimenti dal computo del debito. Pare opinione generale che fino alle elezioni tedesche del 22 settembre sia meglio neppure evocarla, la questione. E va bene. Ma con una situazione di bilancio nazionale che è quella che è, con un bilancio comunitario tagliato all’osso, con una Bei che continua a ragionare da banca, i piani generosi per dare lavoro ai giovani rischiano di restare nel cielo delle buone intenzioni. Di certo, dopo il 22 settembre bisognerà ridiscutere molte cose.

l’Unità 29.06.13