attualità, politica italiana

“La Repubblica dei partiti provvisori”, di Ilvo Diamanti

È in corso un cambiamento politico rapido e violento. Come vent’anni fa, tra il 1992 e il 1994. Eppure fatichiamo ad accorgercene. Probabilmente perché fissiamo l’attenzione sull’istante. E non vediamo il dopo. Non ce ne (pre)occupiamo. Ma la semplice osservazione dei fatti politici è sufficiente a descrivere una realtà evidente, quanto elusa. Tutti i partiti e tutti i leader che hanno guidato il Paese negli ultimi vent’anni sono a fine corsa. Fra un anno, al massimo, il sistema partitico sarà diverso. Molto diverso. Cambieranno le sigle, i protagonisti, le alleanze. Lo spartiacque sarà costituito dalle elezioni europee. Perché l’Europa e l’euro già costituiscono temi strategici dei principali partiti. In grado di dividere, tra loro e al loro interno, questa “strana” maggioranza e questa “strana” opposizione. Perché alle elezioni europee i partiti si presenteranno da soli. Ciascuno per sé e contro gli altri. Visto che le elezioni si svolgono con metodo proporzionale. Già, ma quali partiti? E quali leader? L’impressione è che il paesaggio su cui proiettiamo i nostri scenari futuri sia già “passato”. Più che ieri. Largamente ridisegnato e, comunque, destrutturato dalle elezioni di febbraio e dal dopo-elezioni. Partiamo dal centro. Avrebbe dovuto imporsi come il Terzo Polo, intorno a Monti. Con il sostegno dell’Udc di Casini e Fli di Fini. Tutto finito. Durato il tempo di un’elezione. Ora il partito di Monti è stimato intorno al 5%. Ma è in calo. Mentre Fli e perfino l’Udc non possono calare oltre. Perché sono praticamente spariti. Come i loro leader, d’altronde. In attesa di riaffiorare, ma, per ora, sotto il pelo dell’acqua.
Il centrodestra, gregario di Silvio Berlusconi, fatica a ridefinirsi, a rinominarsi e a riposizionarsi. Il Popolo della libertà è finito. Ha perduto 6 milioni e 300 mila voti, alle elezioni di febbraio. Ma è riuscito a fare la parte del non-sconfitto, perché le attese erano ancora peggiori. E perché il vincitore annunciato, il Pd, in effetti, non ha vinto. Il Pdl ha, però, perduto dovunque alle elezioni amministrative. E si è presentato per quel che è: un partito personale senza territorio e senza persone. Ad eccezione
di una: Silvio Berlusconi, il cui peso elettorale, misurato dai voti al partito, si è dimezzato negli ultimi 5 anni. Così Berlusconi stesso oggi annuncia la fine del Pdl e il ritorno a Forza Italia. Tuttavia, è difficile, anzi, impossibile riproporre la novità del 1994. Più che di Forza Italia 2.0, si tratterebbe di Forza Italia 20 (anni dopo). Berlusconi stesso ha quasi 80 anni. Molti processi e molti scandali sulle spalle. Di sicuro non è più “nuovo”. In tempi di rifiuto della politica, lui, più di altri, impersona la politica degli ultimi vent’anni. Comunque, il Pdl è finito. E la “nuova” Forza Italia sarà, comunque, un partito “personale”. Inestricabile da Berlusconi. Non è un caso che si parli – non da oggi – di una successione dinastica. Da Silvio a Marina. Perch é, al di là di tutto, quest’area politica è unita dal “patrimonio” – familiare. In senso lato: le imprese, i media, le risorse finanziarie e simboliche. Di cui Marina è erede. Certo più di Alfano, Brunetta o la Santanché.
Intorno a Berlusconi e al suo partito personale, d’altronde, a destra c’è il nulla. O quasi. An è scomparsa e i suoi surrogati – come i Fratelli d’Italia – non raggiungono il 2%. La Lega, infine, è debole e divisa. Alle elezioni politiche ha perso oltre metà dei voti. Governa ancora Regioni e Comuni. Ma non ha più la sua base. La Padania ha perduto i padani. E non ha più capitali.
Il Partito democratico è impegnato nelle primarie. Ormai da un anno, senza soluzione di continuità. Non ha vinto le elezioni politiche, nonostante le previsioni e le attese. Di tutti. Ha perduto il dopo-elezioni, non riuscendo a imporre i suoi candidati alla presidenza della Repubblica. E ha “subìto” la partecipazione a un governo di scopo – alleato con l’avversario di sempre. Certo, ha vinto le amministrative. Ma ci ò conferma il distacco fra la base e il gruppo dirigente nazionale. Il Pd: è un partito “impersonale”, perché non c’è “un” leader in grado di rappresentarlo tutto e unito. I partiti della Prima Repubblica,
da cui origina, gli garantiscono “resistenza”, ma non slancio, crescita. Alle elezioni di febbraio si è ridotto al 25% o poco più. Rispetto al 2008 ha perduto 3 milioni e mezzo di voti. Quasi un terzo. Ora, dopo le amministrative, pare risalito al 28%. Ma resta un partito incompiuto. Fra un anno non sappiamo chi ne sarà il leader. E di che consenso disporrà.
Alla sua Sinistra, d’altronde, è rimasto poco. Sel: legata alla figura di Vendola. L’Idv: scomparsa insieme al suo leader, Antonio Di Pietro. Né gli servirà il cambio di segretario a risorgere. Le formazioni raccolte intorno a Ingroia: latitanti e latenti, come il magistrato. Come Rivoluzione civile.
Resta il M5S. Un non-partito fluido. Istantaneo. Composito. Circa un terzo dei suoi elettori afferma di averlo votato per delusione e protesta verso gli altri partiti. I suoi parlamentari sono in costante fibrillazione. È difficile, d’altronde, trovare stabilità “inseguendo” Grillo. Impegnato, a sua volta, a “inseguire”, di giorno in giorno e un giorno dopo l’altro, le diverse domande e le diverse tensioni espresse dai suoi elettori. E dai suoi parlamentari. Di certo non è dato di sapere cosa ne sar à in futuro.
Il problema è che si è conclusa la parabola dei partiti personali. Raccolti da – e intorno a – un leader, una persona. Perché il declino dei leader coinvolge i partiti. Perché, comunque, i leader hanno bisogno di partiti. Le televisioni e la stessa rete non li possono rimpiazzare del tutto. I partiti servono. A offrire presenza e visibilità nella società e sul territorio. A organizzare le attività e le decisioni in Parlamento. A fornire prospettive, durata. Oltre la biografia del capo.
Così oggi discutiamo di partiti provvisori e di leader di passaggio. E ci illudiamo di proiettare e progettare gli scenari del futuro.
Mentre, in realtà, usiamo foto d’archivio. E prevediamo solo il passato.

La Repubblica 01.07.13