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“Una decrescita tutt’altro che felice”, di Paolo Bricco

La recessione sta piegando la nostra vita. Niente soldi. E perfino a tavola si rinuncia ad alcuni cibi. Qualcosa che ricorda gli anni Venti e Trenta. Nessun richiamo alla sobrietà. È soprattutto la mancanza di denaro, avvolta nella nuvola nera della paura per il futuro, a spingere gli italiani a risparmiare in un modo così nuovo e radicale. «E mi dovrei stupire per i dati Istat? Il fenomeno di quest’anno sono i genitori che fanno mangiare a mezzogiorno i figli alla mensa scolastica e, poi, alla sera portano da noi, qui in via Dandolo, tutta la famiglia». Augusto D’Angelo, a Roma, è responsabile delle mense della Comunità di Sant’Egidio. A trecento metri, in via Anicia, Sant’Egidio distribuisce, ogni mese, seimila pacchi alimentari: ognuno con due chili di pasta, pomodori, qualche scatoletta di tonno, del parmigiano. «In Via Dandolo – racconta D’Angelo – si trovano persone dignitose e ben vestite. L’anno scorso abbiamo contato cinquemila volti nuovi». Non è sorpreso nemmeno Luigi Campiglio, ordinario di politica economica all’Università Cattolica di Milano, l’economista che ha più studiato uno degli ultimi processi di impoverimento strutturale della nostra società, il passaggio alla moneta unica che, per molti connazionali, ha fissato il cambio reale in mille lire per ogni euro. «Il dato dell’Istat sui consumi, in particolare alimentari, va letto insieme all’indagine Eu-Silc di Eurostat», dice Campiglio. Una domanda, posta a consumatori di tutta Europa, riguarda la capacità di permettersi un pasto con carne (o, in alternativa, pollo o pesce) ogni due giorni. «Già nel 2011 – nota Campiglio – il 12,4% degli italiani non se lo poteva permettere. Negli anni prima, questa quota era fra il 5 e il 6 per cento. Nel 2012 e nel 2013, la tendenza non è migliorata». Il 12,4% non è poca cosa. Ed è molto più dell’8,8% di tedeschi e del 6,8% di francesi che si trovano nelle stesse condizioni di indigenza. Siamo sempre più in difficoltà. Sapete, secondo l’Eurostat, quanti italiani hanno problemi a riscaldare la loro casa? Il 18%. Questo, a fronte del 6% dei francesi e del 5,2% dei tedeschi. Cibo e casa. Le ultime due cose. Quando non le hai più, sei povero. «Fra i miei pazienti, è comparsa una sindrome speciale: per la prima volta, torniamo a pensare che il futuro, in Italia, ci sia precluso. Nella testa, siamo ridiventati un Paese di emigranti». A sottolineare il mutamento identitario è Marco Greco, psicoterapeuta e direttore della scuola di psicodramma moreniano di Torino. Il quale aggiunge: «La crisi è sempre ambivalente. Sul tema del cibo, l’abbandono forzato dello spreco di un tempo può diventare un perno per ridisegnare abitudini troppo condizionate dagli eccessi dei consumi. Tuttavia, l’intensità della recessione è tale da offuscare, nell’emotività delle persone, anche questo aspetto di razionalizzazione virtuosa. E, poi, su tutto, c’è la durezza della quotidianità: in molti non riescono più, letteralmente, a mettere insieme il pranzo con la cena». Sull’esistenza di nuovi modelli di consumi è d’accordo Monica Fabris, presidente della società di analisi di mercato Episteme: «Esiste un richiamo alla austerità, ma intesa come invito alla moderazione, non alla decrescita». La decrescita è tutt’altro che felice. Il cibo e la casa. E la salute. Spiega Fabris: «Sempre più italiani scelgono di non curarsi. Rimandano gli esami. Il costo del ticket è, o sembra, proibitivo». La paura è tale che, in farmacia e al banco dei formaggi, si rinuncia a spendere. Siamo in una bolla. «Fra le domande che poniamo nei nostri focus group – afferma Fabris – una ha un esito scioccante. Il quesito è: l’anno prossimo la sua situazione economica sarà più sicura? Fino a tre anni fa, un terzo degli italiani rispondeva di sì. Oggi è il 2 per cento. Di fatto, nessuno».

Il Sole 24 Ore 06.07.13

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Saraceno: «Meno quattrini e più paure: così si ipoteca il futuro», di Oreste Pivetta

Sempre meno quattrini in tasca, sempre più paure in testa. Spiegazione di quanto ci dice l’Istat: crollano i consumi. Una sorpresa? Di sicuro no per le famiglie che hanno visto svanire i propri mezzi, di sicuro no per chi studia questi andamenti. «Le avvisaglie c’erano tutte – spiega Chiara Saraceno, sociologa che ha scritto testi fondamentali sulla famiglia, sulla condizione della donna, sulle povertà (e ha presieduto la commissione parlamentare di studio sulle povertà, ministra allora Livia Turco) – e tutti gli indicatori concordavano. Anche i dati raccolti dall’EuSilc mostravano la piega negativa dei consumi già dal 2010 al 2011, poi confermata tra il 2011 e il 2012».

EuSilc è la rete statistica europea che indaga appunto su redditi e famiglie. Ma se la crisi viene da lontano ormai, qualche effetto si è forse presentato in ritardo…

«Da quanto dura la crisi? Da cinque, da sei anni? Da quanti anni si perdono posti di lavoro, aumentano i disoccupati, cresce il numero dei cassintegrati e di quanti, senza lavoro, vedono ormai esaurirsi la possibilità della cassa integrazione o di quanti ancora la cassa integrazione non hanno mai potuto vederla? Moltissimi sono senza protezione, colpa di un sistema sgangherato di welfare come il nostro… Che cosa ci ha salvato per un tempo non breve? È successo che chi aveva due soldi da parte, li ha spesi per difendere la qualità della vita e quindi dei consumi per sé e per la propria famiglia. Adesso non può più permetterselo: non sarebbe saggio in queste condizioni intaccare ancora il piccolo patrimonio familiare, perché nessuno sa prevedere che cosa ci capiterà».

Quindi c’è qualcosa che nasce nella psiche di ciascuno di noi in questo crollo: incertezze, pessimismo, dubbi sul futuro?
«Una cronaca torinese riferiva che sta aumentando l’entità dei depositi liquidi nelle banche. Significa che siamo tornati ricchi? No, significa che si risparmia: anche chi ha un reddito adeguato non spende, preferisce risparmiare, tagliando i consumi, per costruirsi un piccolo salvadanaio. La prudenza è di tutti, anche di chi non è povero, di chi può godere di buone entrate e sicure». Non dovremmo essere ancora a quel punto… Siamo un Paese fermo?

«Non solo fermo. Un Paese che arretra, un Paese che sperimenta la sua grave recessione: basterebbe riferirsi al cambiamento nelle tendenze alimentari. Si è chiusa la fase in cui si rinunciava ad altri consumi, ma non si accettava l’idea di toccare quelli alimentari. Ora si il 62% delle famiglie taglia sul cibo, sulla qualità del cibo: si acquista meno e peggio, si conserva, si ricicla. Se fosse lotta allo spreco, sarebbe una questione di buona educazione. Ma sappiamo che non è così». Un Paese che mangia meno sembra un Paese in ginocchio, da carestia. D’altra parte quanti ormai non cercano neppure più una occupazione?

«Il rovescio della medaglia è la ricerca invece di un lavoro qualsiasi, anche se poco qualificato, con contratti a termine, in varie fo me, da parte delle donne. Paradossale: torna a crescere un certa impiego femminile, di colf, badanti, nelle imprese di pulizie. Sono le mogli di mariti che hanno perso il posto e che si adattano…».

Che cosa pesa di più: la sfiducia o il reddito?
«Berlusconi s’era inventato quello spot che invitava a spendere. Trovare le risorse e metterle in gioco: questa è la via per risalire».

Qualcosa potrebbe arrivare alla lotta dall’evasione fiscale?
«Certo. Ma la lotta all’evasione fiscale è diventata un mantra. Si pensa, si annuncia e non si fa, perché non si fa lotta all’evasione fiscale inviando qualche bravo finanziere a Cortina. Si deve fare anche questo, ma soprattutto si deve mettere in atto un sistema che scoraggi e poi condanni severamente l’evasione. Non è facile, anche per le caratteristiche del tessuto produttivo italiano di piccole imprese e di lavoro autonomo e si sa che lì attecchisce più facilmente l’irregolarità. La grande impresa non può evadere». L’eventuale soppressione dell’Imu potrebbe aiutare?

«Sarebbe una decisione irresponsabile, segnata dall’ingiustizia. In qualsiasi Paese si paga una tassa sulla casa in proprietà. Si può pensare di rimodularla, aiutando chi ha meno reddito, ma cancellarla mai: sarebbe solo un favore ai ricchi (purché non posse gano un castello). E poi: per chi sta in affitto niente?».

Mi pare che una ricetta anticrisi sia comune: aumentare i soldi in tasca agli italiani, riavviare i consumi, rianimare il mercato. Ma viene da chiedersi: non c’è anche una questione di qualità dei consumi? «Dibattito aperto. Ce lo siamo spesso chiesti: quante automobili dobbiamo comprare, quanti vestiti, per tenere in piedi l’economia? A parte il fatto che qualcuno una risposta se l’è dovuta dare, ad esempio comprando meno pane e meno pasta, l’obiettivo quando non c’è lavoro è creare le condizioni perché il lavoro torni e non c’è dubbio che in questo momento ci si può riuscire solo facendo girare denaro e soprattutto più rapidamente. Leggevo in questi giorni di un imprenditore che vanta un credito nei confronti di enti pubblici di 750mila euro e denunciava le lentezze e le complicazioni burocratiche imposte da leggi e regolamenti per ottenere il pagamento. È uno scandalo, perché i soldi per rimborsare quell’imprenditore ci sono, sono stati stanziati, ma giacciono in qualche anfratto regionale. Ora pare che il ministro Saccomanni abbia rassicurato l’imprenditore. Speriamo che le assicurazioni del ministro abbiano buon esito. Resta il guaio di una inefficienza burocratica che contribuisce a paralizzare il Paese, che blocca gli investimenti, un’inefficienza che scoraggia e talvolta uccide. Ecco, mettiamo in conto la scarsa produttività della pubblica amministrazione, quando qualcuno chiama in causa a giustificare la crisi la scarsa produttività del lavoro, ricordando sempre che non potremo mai competere con Cina o India, riducendo il costo del lavoro o aumentando l’intensità dello sfruttamento».

L’Unità 06.07.13