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“Basta calci al cinema”, di Roberto Andò

«La cultura è quello che resta quando si è dimenticato tutto », questa frase di Paul Valery, uno degli uomini-chiave del secolo scorso, sta lì, nel pantheon delle citazioni possibili, a ricordarci che ogni affermazione volontaristica a favore della cultura è vana rispetto al meccanismo che selezionerà ciò che sarà trasmesso ai posteri, il reperto che sarà loro inoltrato dalla civiltà di cui siamo stati parte. La dimenticanza, il suo implacabile setaccio, conterà più del ricordo. L’avvertimento di Valery non è una ragione sufficiente per astenersi dal fare certe battaglie ideali. Dal ricordare ciò che non va dimenticato. È bene, per esempio, ricordare alle giovani generazioni chi è stato Federico Fellini, e rendergli il doveroso omaggio nel ventennale della morte. Come potrebbero, altrimenti, i giovani, essere sollecitati a vederne i film? E dove?

A Federico Fellini, in vita, è toccato in sorte il ruolo di psicopompo, o mago, del cinema italiano, e con questo intendo dire che nessuno come lui ha certificato l’ambizione del nostro cinema, il suo talento, la sua grandezza. Nessuno come Fellini ha portato sulle proprie spalle le insegne del genio italiano, e in particolare, della potenza visionaria che attraverso il genio può esprimere il cinema. Una delle ragioni per cui queste insegne gli erano state affidate era la naturale eleganza con cui sapeva rappresentare il mestiere di regista. Fellini non amava le prediche ideologiche, il gesto impegnato, il gergo da iniziato. C’è una leggenda che ne tramanda il cinismo, il disincanto, l’opportunismo. Per come l’ho conosciuto, non credo che questa leggenda peschi nel vero, e tanto non lo credo, che, per confutarla, ho citato nel mio film, Viva la libertà, un frammento di una sua intervista, nel quale egli appare appassionato, furiosamente lucido, e, come a volte accade agli artisti più grandi, indisponibile all’accordo, alla conciliazio- ne, al compromesso. Nell’intervista Fellini dichiara di non essere disposto al negoziato con chi vuole interrompere i film per inserirvi spot pubblicitari, dice di essere pronto a farlo solo nel caso in cui il Papa accettasse per lo stesso motivo di interrompere la funzione della Messa. Fellini fu coerente con questa dichiarazione, e sino all’ultimo si comportò come il più strenuo oppositore delle interruzioni pubblicitare al cinema. Ricordo quest’episodio perché molte volte è accaduto che i registi italiani intervenuti per migliorare le condizioni in cui versa il cinema, siano stati pesantemente redarguiti da autorevoli editorialisti d’importanti giornali, e che, con l’occasione, puntualmente, venisse diffusa una immagine del nostro cinema volta a mortificarne l’indipendenza, l’onestà, il talento. Uno dei punti cruciali della ricorrente polemica è l’accusa che il cinema italiano sia assistito. Coloro che affermano questo, pensano anche che questo peccato originale sia il motivo per il quale il cinema italiano si è rivelato incapace di confrontarsi col mercato. In passato questa opinione poteva avere una sua fondatezza, oggi no. Il fatturato dell’audiovisivo italiano mostra con chiarezza inequivocabile che si tratta di una risorsa attiva dell’industria italiana, tutt’altro che parassitaria, e che il confronto col mercato può ampliarsi a condizione che si creino regole chiare per accedervi. Dagli anni 90 al 2011 gli spettatori sono passati da 10 a 40 milioni. La quota di mercato italiano oscilla dal 25 al 40% (Inghilterra, Germania, Spagna si attestano al 10). Gli investimenti pubblici diretti sul totale erano sino al 2004 il 65%, oggi il 12%.

IL GRIDO D’ARTISTA

«In quanto narratori di storie, autori, noi non possiamo continuare a farci prendere a calci e sputi in faccia» urla Fellini in quella intervista. Mi piacerebbe che queste parole urlate dal Maestro divenissero oggi le nostre parole d’ordine. L’arretratezza legislativa con cui si è proceduto a tenere il cinema italiano al di fuori delle regole di mercato da anni vigenti negli altri paesi, è il delitto cui ancora non si riesce a porre rimedio. Si invoca il mercato ma non si tiene conto del fatto che il cinema è una industria (nella patria del supposto e inneggiato liberismo, gli Stati Uniti, è addirittura una industria strategica – perché non dovrebbe esserlo nella patria di Fellini, De Sica, Rossellini, Antonioni, Monicelli, Rosi, Risi, Olmi, Taviani?) e, che, come ogni industria che si rispetti avrebbe bisogno di piazzare i propri prodotti senza rischiare che gli vengano impunemente rubati (pirateria), avrebbe bisogno che i film, i prodotti, fossero garantiti da regole che rendano efficaci, accertate, le condizioni della loro produzione, commercializzazione e distribuzione. Per non parlare del ricatto feudale in cui si trova l’autore di un film rispetto ai diritti di cui sovranamente dovrebbe essere detentore.
Pur messo ai margini, in questi anni terribili, il cinema italiano è riuscito a rimanere vivo e vegeto, a mantenere l’originalità e le peculiarità che ne hanno sempre contraddistinto il passo. Ci sono grandi autori, grandi film (grande anche la presenza dei film italiani nei festival), grandi attori, e, come sempre, ci sono anche film medi, film brutti. Quel che è certo è che non c’è il respiro economico per farne di grandi, anche se qualcuno se ne fa ancora. Così com’è certo che l’industria cinematografica è allo stremo, che le professionalità tecniche e creative sono state lasciate sole, e che esse vivono da tempo in uno stato di resistenza, alla giornata, sino a quando sarà loro possibile tirare avanti. Se esistesse ancora un dialogo tra chi produce cultura e immaginazione e chi governa il paese, i partiti, i numeri di chi lavora nel cinema e nella televisione sarebbero quelli di un comparto verso cui la politica dovrebbe manifestare un grande rispetto. Se si comparano le cifre che ruotano intorno ad altri settori industriali si capisce che il cinema da tempo vive di poco, solo dell’esiguità delle proprie forze, con risorse inadeguate alla dimensione di un paese come l’Italia, mortificanti se confrontate con gli al- tri paesi d’Europa, piccoli o grandi che siano. Sono tante le azioni concrete che il governo presieduto da Enrico Letta, che il ministero della Cultura retto da Massimo Bray (due per- sone che per sensibilità possono legittima- mente divenire i demiurghi di una inversione di rotta) potrebbe intraprendere per dare impulso a questo settore industriale che è anche una delle leve cruciali della cultura del nostro paese. Ci sono tavoli da indire per mettere a confronto i vari attori che potrebbero concorrere al reperimento delle risorse necessarie alla rinascita del cinema (produzione, distribuzione, esercizio, tv generaliste e pay, provider di internet dai broadcast). Ci sarebbe da lavorare in seno all’Unione Europea creando collegamenti, incentivando le coproduzioni. Insomma, ci sarebbe tanto da fare per il cinema in quel mucchio di macerie che è l’Italia di oggi, se l’orgoglio di rivendicare l’importanza della propria tradizione culturale divenisse azione politica.
Il deficit di attenzione che ha contraddistinto il modo con cui in Italia la politica ha sinora guardato alla cultura, a ciò che essa rappresenta in quanto espressione della libertà di un paese (che cosa è stato il neorealismo cine- matografico se non la lingua della ritrovata identità nazionale?), oggi non è più accettabile.

Il rischio concreto e tangibile è che in questo grave contesto di crisi si approfitti della crisi per ridurre ancora la possibilità che il nostro cinema possa riprendere quota, come dimostra la vicenda del tax credit, ridotto da 90 milioni a 45 milioni. Così facendo si impoverisce ulteriormente l’iniziativa dei produttori indipendenti, quelli che più di altri possono ridisegnare il profilo di una cinematografia che non vuole arrendersi all’omologazione, all’imperialismo della commedia.

«Noi non possiamo continuare a farci prendere a calci e sputi in faccia », ricordiamo le parole di Federico Fellini e riascoltiamole come si ascoltano le parole dei profeti: per orientare il nostro destino. Per passare all’azione.

L’Unità 07.07.13